Il doppiaggio inclusivo: L’incontro tra 3Cycle, Netflix e Diversity
3Cycle, in collaborazione con Diversity e con il supporto di Netflix, ha organizzato la prima edizione del Corso in Recitazione e Scrittura applicate al Doppiaggio che punta sui valori della Diversity & Inclusion (d’ora in poi, brevemente, doppiaggio inclusivo). TheWom.it ha avuto la straordinaria opportunità di partecipare a una delle giornate dedicate al corso, assistendo alle lezioni e agli incontri e incontrando chi questo progetto lo ha voluto e sostenuto senza se e senza ma.
Il corso di doppiaggio inclusivo riunisce le eccellenze del doppiaggio e dell’adattamento italiano e docenti dal mondo dell’attivismo per formare nuovi talenti per il settore, valorizzando la qualità tipica dell’approccio italiano con nuove competenze, nuove sensibilità e nuove voci.
Dicevamo prima che sono tre le realtà che hanno unito le loro forze per il doppiaggio inclusivo. La prima è 3Cycle, società di post-produzione e doppiaggio che, attiva dalla fine del 2013, ha alle spalle oltre quarant’anni di esperienza, ben rappresentati dalla figura del suo amministratore delegato, Marco Guadagno. La seconda è Diversity, la fondazione no profit impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione e nello spingere a un cambiamento, sempre più prossimo e importante, che sia veramente inclusivo e valorizzi ogni unicità. La terza, infine, è Netflix, il colosso dello streaming da sempre attento che i suoi prodotti rispettino standard di inclusione su tutti i fronti.
VEDI ANCHE Lifestyle“Parliamo con chi non la pensa come noi”: Intervista esclusiva a Francesca VecchioniChe il linguaggio stia profondamente cambiando è un dato di fatto di fronte al quale nessuno di noi ha dubbi. Ogni giorno siamo sovrastati da termini nuovi che arricchiscono il vocabolario italiano e restituiscono realtà fino a oggi sotto rappresentate. Pensiamo ad esempio alla sfera della sessualità e a tutte le sue declinazioni, a partire dall’acronimo LGBTQIA+, composto da parole di cui tutti noi abbiamo fatto la conoscenza. Il cambiamento del linguaggio corrisponde a un cambiamento in corso a livello sociale di fronte al quale nessuno può chiudere gli occhi.
Ecco perché il mondo del doppiaggio e dell’adattamento ha accettato la sfida di diventare inclusivo nel rispetto sia della qualità dei prodotti stessi sia del contesto sociale di riferimento a cui deve rivolgersi. A oggi, ad esempio, non è più accettabile che una donna transgender venga doppiata dalla voce di un attore cisgender: sarebbe percepita come una violenza di genere inopportuna e, soprattutto, gratuita. La rappresentazione diventa dunque il vero fattore destinato, scusateci il gioco di parole, a fare la differenza, l’unica differenza che possiamo accettare e ritenere fondamentale.
In un gioco di specchi tra ciò che vediamo sullo schermo e ciò di cui siamo circondati o protagonisti fuori dallo schermo non devono esserci incrinature, riflessi distorti e ancora meno graffi che si tramutano in graffi dell’anima. Retorica, si dirà. No, necessità, semmai.
Il doppiaggio inclusivo, dunque, come primo passo per cambiare il mondo delle serie tv e dei film. Per chi non ne fosse consapevole, lavorare di doppiaggio non significa soltanto prestare la voce a un personaggio, come ci dirà Marco Guadagno. Comincia molto prima, da quando un prodotto estero deve essere italianizzato e reso fruibile dai nostri contesti di riferimento. Questa fase si chiama “adattamento” e vuol dire traduzione, non solo lessicale. L’adattamento equivale a una sorta di riscrittura semantica, culturale e sociologica del prodotto di partenza.
Ce ne accorgiamo assistendo ad esempio a una lezione tenuta da Elettra Caporello, dialoghista di gran parte dei film di Woody Allen. Negli incontri con gli studenti del corso di doppiaggio inclusivo, spiega perché un termine è preferibile a un altro o perché un’espressione, che scritta suona bene, risulterebbe stonata pronunciata a voce, nel parlato. Ed è qui che cominciamo a conoscere chi frequenta il corso, ragazz* e adult* senza alcuna distinzione di età, orientamento sessuale, provenienza, colore di pelle o deficit motori. L’unica discriminante è data dal merito e dall’esperienza alle spalle.
Ma per capire bene l’importanza del doppiaggio e dell’adattamento inclusivo non ci siamo fermati a guardare passivamente. Abbiamo voluto confrontarci con chi questo corso lo ha voluto e con chi lo frequenta, con un reportage unico che per comodità di lettura abbiamo voluto dividere in tre parti.
Concludiamo questa prima parte con un’intervista a Marco Guadagno (MG), amministratore delegato di 3Cycle, e Claudia Simonetti (CS), dubbing manager di Netflix.
INTERVISTA ESCLUSIVA A MARCO GUADAGNO E CLAUDIA SIMONETTI
“Il doppiaggio nasce nel dopoguerra. Durante le pause estive, gli attori di teatro cominciarono a doppiare i primi film americani giunti in Italia”, ci spiega subito Marco Guadagno. “Si tratta dunque di una tradizione nobile: parliamo dei più grandi nomi dell’epoca che hanno dato il via a un mondo in cui ho avuto la fortuna di entrare negli anni Settanta. Un periodo quello dei miei esordi caratterizzato da registi importanti come Leone, Bertolucci, Fellini, De Sica (con alcuni di loro ho lavorato anche come attore da bambino). Incontrare attori come Mastroianni, Sordi, Gassmann o Vitti era un po’ all’ordine del giorno: si imparava anche così. C’erano ovviamente dei tempi diversi rispetto a oggi: quella del doppiaggio è diventata un’industria con dei tempi frenetici”.
E con delle strutture tecnologiche all’avanguardia, come dimostrano le sale editing e di doppiaggio dotate della più moderna tecnologia della sede di 3Cycle.
Marco, da quando hai cominciato hai assistito alla maggior parte dei cambiamenti della società italiana. Il doppiaggio ha dovuto stare al passo con il tempo e adattarsi alle nuove esigenze anche linguistiche.
MG: Il punto di svolta che considero la nascita del doppiaggio moderno è rappresentato dal film Un uomo da marciapiede. Mario Maldesi ha preso in mano il film e inventato il personaggio di Sozzo affidandone la voce a Ferruccio Amendola, attore sicuramente importante ma che fino a quel momento non aveva ancora avuto importanti occasioni. Si è scalzata così una recitazione più “antica” per entrare nel doppiaggio che ancora oggi conosciamo. Poi sono arrivate anche le nuove tecnologie, è cambiata l’intera industria e non posso non ringraziare i servizi streaming, Netflix in particolare, che hanno portato sì portato un’enorme quantità di prodotto ma rialzato anche la qualità. Alcuni dei titoli sono largamente superiori a prodotti che si vedono al cinema, ad esempio.
Doppiaggio non vuol dire soltanto prestare la voce.
MG: Ho cominciato a doppiare sin da bambino e ho continuato a farlo fino a quando intorno ai 18/20 anni ho capito che doppiare non significava soltanto prestare la voce. Ho allora approfondito la parte attoriale, ho cominciato a fare tournée teatrali e a prender parte a qualche film. Ma anche per un semplice fatto di conoscenza: lavorare internamente è diverso dal farlo solo con la voce.
So che adesso qualcuno mi maledirà ma la voce è semplicemente l’ultimo degli aspetti del doppiaggio, è ciò che esce da tutto ciò che si è pensato, che si vive emotivamente in quel momento e che si traduce con parole. Purtroppo, con l’aumento del lavoro, negli ultimi anni si è cominciato a pensare che bastasse avere una bella voce per doppiare. Ferruccio Amendola non aveva una bella voce ma sapeva suonarla molto bene. Non è importante avere uno strumento bello ma saperlo suonare bene.
Dietro al doppiaggio c’è un lavoro grandissimo e ci sono tante persone, non solo quelle che noi sentiamo. Ci sono tantissime persone che spesso non compaiono nemmeno nei cartelli delle edizioni italiane: dal ragazzo che accoglie alla reception dello studio di doppiaggio alla project manager, dagli assistenti di doppiaggio a tutti i vari tecnici.
Il doppiaggio in sé sarebbe riduttivo se dietro non ci fosse il processo di adattamento che deve essere messo in atto quando arriva un prodotto in lingua originale. Qual è la prima cosa che viene fatta da 3Cycle?
MG: Considerando che siamo esseri umani e che, quindi, l’errore è sempre dietro l’angolo, la prima cosa è capire la natura del progetto. Se ne valuta poi linguaggio e tipo di recitazione per individuare i talenti più adatti al doppiaggio. Ci si muove su un terreno molto difficile: andiamo a incollare una cosa sopra un’altra e l’unica via di scampo è cercare di far vedere il meno possibile quello che c’è sotto sia a livello linguistico sia a livello di recitazione. Se si vede in qualche modo l’originale, vuol dire che non si è fatto un bel lavoro.
Spesso si deve intervenire di doppiaggio anche con le produzioni italiane. Che tipo di lavoro viene fatto?
MG: In quel caso, si fa un lavoro più “creativo”. Il film o la serie tv prende forma spesso insieme al regista o al fonico di mix, per cui si può intervenire sul montaggio o sull’audio. Ci si scambia consigli e suggerimenti, cosa che non puoi fare con un prodotto già chiuso per cui deve esserci il massimo rispetto dell’originale. Si deve sempre partire dalla voce più simile all’originale ma non è detto che la voce debba essere identica, anche perché potrebbe non restituire il personaggio. Con Claudia Simonetti, dubbing manager Netflix Italia, abbiamo avuto tante discussioni e scambi di idee al riguardo. L’obiettivo è quello di dare il meglio al prodotto e in alcuni casi ci siamo discostati dalla voce originale per concentrarci su valori artistici più importanti. Ecco perché sono felice del programma di collaborazione tra 3Cycle, Netflix e Diversity.
CS: Da supervisor, lavoro che ormai svolgo da tanti anni, c’è un grande rispetto nei confronti di 3Cycle e del direttore di doppiaggio perché questi è paragonabile al regista: ha la responsabilità artistica del progetto. Quindi, è giusto non sovrastarlo anche nel caso in cui non si abbiano le stesse idee. Anche perché facciamo un lavoro creativo in cui c’è sì un margine di oggettività ma c’è anche tanto margine personale o di gusto. Per noi, è fondamentale la massima fiducia.
Massima fiducia ma anche tantissime umanità in gioco. Tu, Claudia, ricopri un ruolo importante e di grande responsabilità. Quanta attenzione dedichi ai contenuti e al linguaggio delle serie di produzione straniera? Qual è la tua principale preoccupazione quando ti approcci a un prodotto che deve rappresentare in toto il mondo che ci circonda?
CS: La prima cosa che da supervisor si fa è qualcosa di analogo a quanto diceva prima Marco: guardare il prodotto per capire di cosa si tratta e di cosa parla per garantire il rispetto dell’originale e di quelli che sono gli intenti creativi. Il team dubbing all’interno di Netflix lavora molto sullo scambio di informazioni e di contesto da chi ha creato il prodotto fino ad arrivare a noi.
Un aspetto importante da tenere in considerazione, sia per noi supervisor sia per gli adattatori e le adattatrici, è la necessità di rimanere sul pezzo rispetto a quello che ci succede intorno. Non lavoriamo o viviamo in un ambiente completamente avulso da quello che ci circonda. Quindi, è molto importante aggiornarsi sempre, capire quello che succede fuori, ascoltare come le persone desiderano essere chiamate o vogliono vedersi rappresentate. Dobbiamo restituire la molteplicità della realtà e non le nostre idee. L’aggiornamento è fondamentale: dobbiamo cercare di rispecchiare il più possibile i cambiamenti sociali anche dal punto di vista linguistico.
Di recente, per quanto riguarda la comunità lgbtqia+, Netflix ha proposto due prodotti tra loro molto diversi: Heartstopper e Dahmer. Si tratta di serie tv che hanno ognuna un proprio linguaggio e il cui doppiaggio, soprattutto nel secondo caso, avrebbe potuto presentare più di qualche spina. Come ci muove in questi casi?
CS: Come d’abitudine, lavoriamo a stretto contatto con tutti i partner di doppiaggio. C’è sempre una conversazione costante e sempre aperta che va al di là dei singoli progetti. Stiamo molto attenti agli aspetti linguistici, sono per noi molto importanti, e cerchiamo di curarli nella maniera migliore insieme agli studi di doppiaggio con cui collaboriamo abitualmente. In quel caso, la natura dei progetti era fondamentalmente diversa e delicata: nell’affrontare determinati argomenti invitiamo spesso ad affidarsi a consulenze specifiche, se non si è totalmente preparati.
Nel caso in cui scappa l’errore, come si rimedia?
MG: Sbaglia chi lavora. Chi non lavora è invece esente da errori. Intervenire di doppiaggio è abbastanza complicato: occorre ricevere le informazioni giuste da parte del regista e della produzione, i materiali corretti e via di seguito. I tempi di lavoro sono sempre più ristretti rispetto al passato e quindi possono commettersi errori anche di varia natura. A volte, ci sono errori di trascrizione, altre volte di comprensione della lingua stessa spesso derivanti da termini che in italiano non hanno un corrispettivo. La velocità è la maggior nemica ma capita che per trovare una soluzione ci si fermi a riflettere anche ore su una battuta, prima che la soluzione arrivi anche per caso. Come tutti i lavori creativi, presenta momenti di crisi e altri più fortunati.
L’attenzione al linguaggio è però molto stimolante. La lingua italiana è molto più complessa ad esempio di quella inglese, dove si usano meno parole e soprattutto persiste quella neutralità che un tempo anche noi avevamo con il latino. La perdita del neutro in italiano oggi rappresenta un problema: stiamo tentando delle cose per capire come ovviarlo. Quindi, perdonateci se ci saranno degli errori: stiamo cercando una strada tutti insieme.
CS: L’importante è il contatto con quello che c’è fuori. Nessuno di noi è titolato a decidere l’utilizzo di determinati pronomi anziché altri, ad esempio: è importante per noi fare attenzione su questo. L’appoggio e la collaborazione di Diversity sono per noi fondamentali: non siamo noi a dover prendere questa decisione. Nostro compito è quello di restituire come le persone vogliono essere rappresentate. L’errore può esserci ma è frutto dell’esplorazione di un territorio in parte ancora vergine, in cui non c’è un’omogeneità di preparazione e conoscenza. Per questo, come dicevo anche prima, il nostro obiettivo è quello di continuare a imparare e a stimolare noi stessi.
Le sale di doppiaggio di 3Cycle
1 / 3È importante che un colosso come Netflix dedichi la propria attenzione a temi come diversità e inclusione. Ha un compito di socializzazione che definire fondamentale è riduttivo: è il media per eccellenza della generazione Z.
CS: Sono d’accordo. Si pensa sempre che chi si occupa di doppiaggi e di adattamenti faccia un lavoro di nicchia. In realtà, ha sulle spalle una responsabilità molto grande perché poi i contenuti diventano elementi che entrano a far parte della cultura collettiva, basti pensare a cosa sta accadendo nelle ultime settimane con Mercoledì (curiosamente, Marco Guadagno e la sorella avevano doppiato Pugsley e Mercoledì nella mitica serie degli anni Sessanta, La famiglia Addams, ndr). Abbiamo sulle spalle un grande senso di responsabilità soprattutto verso le nuove generazioni, motivo per cui è necessario ogni volta fermarsi a riflettere e chiedere il supporto alle persone giuste.
MG: Si tratta di andare a scoprire, conoscere e forse inventare un nuovo linguaggio. Il nostro compito è quello di creare una sensibilizzazione che, come la goccia nel mare, speri che si allarghi e diventi un oceano.
Nel nostro linguaggio, a proposito di neologismi, sono entrati tanti termini che prima non esistevano. I primi due che mi vengono in mente sono sexting e ghosting. Come si rendono in italiano?
MG: A volte si preferisce lasciare il termine inglese e non tradurlo in italiano. E questo innegabilmente genera un po’ di confusione: tradurre o non tradurre? Solitamente, tendiamo a fare più versioni e a volte si trovano anche risoluzioni felici o si inventano neologismi.
All’interno di 3Cycle si confrontano tre diverse generazioni, dai docenti ai ragazzi che studiano. Come convivono le differenze all’interno della factory di doppiaggio?
MG: Il settore del doppiaggio in Italia è un po’ sclerotizzato: è difficile accettare il cambiamento. Ma perché non si accetta la novità? Perché fa paura? La risposta è facile: si deve faticare di più e ci si deve impegnare. E a me è sempre piaciuto faticare e impegnarmi, soprattutto con i giovani, a cui tramandare sia la tradizione del doppiaggio sia il valore del rispetto per l’altro. È nato da ciò il desiderio di coinvolgere Netflix e Diversity in un progetto come questo sul doppiaggio inclusivo.
Credo che 3Cycle sia la prima scuola di doppiaggio che si occupa anche di inclusività e diversità. La diversità per me rappresenta una ricchezza e non una diminuzione, com’è stata vista per tanti anni. Ho impiegato quasi due anni per pensare al progetto e per capire come era meglio muoversi. Con i miei docenti e collaboratori, ho voluto creare un corso con caratteristiche importanti di formazione vera che parte da una base di cultura vera.
Cosa ha spinto Netflix ad aderire al progetto?
CS: Netflix dedica molto impegno alla formazione perché è importante mantener alta l’eccellenza creativa in tutta la filiera e portarla avanti. Di conseguenza, si dedicano tempo, energie e investimenti a diverse iniziative che aiutano a raggiungere l’obiettivo prefissato. L’aspetto che ha colpito del progetto con 3Cycle e Diversity è la volontà di creare un corso che non fosse di formazione ma di perfezionamento. I partecipanti partono da una consolidata base attoriale e hanno una conoscenza anche minima del settore: per noi, il corso è come un upgrade rispetto a quello che c’è già sul mercato attuale.
Oltretutto, 3Cycle si è dimostrato uno dei partner più sensibili per quanto riguarda i temi dell’unicità e dell’inclusività, mentre con Diversity avevamo già in atto una collaborazione su vari fronti: perché non unire le realtà? C’è stato sin da subito un grandissimo entusiasmo da parte di tutti nell’unire aspetti che sono di pari importanza: l’eccellenza del doppiaggio, la formazione di nuovi talenti e l’apertura reale verso nuove e fondamentali tematiche. In una società che si sta evolvendo, è importante vedere una pluralità di voci e di storie sullo schermo ma è necessario che anche dietro lo schermo ci sia pluralità da tutti i punti di vista.
Il nostro contributo è teso a sopportare gli studenti del corso con borse di studio destinate a persone desiderose e veramente appassionate. Ne abbiamo messe a disposizione 18, di cui 11 a copertura totale e 7 parziali. Ci ha sorpreso piacevolmente il numero di candidature arrivate, oltre 75, ma abbiamo dovuto assegnare le borse attraverso una graduatoria fondata anche e soprattutto sul talento e sul merito. Ma siamo rimasti stupiti dalla preparazione di tutti i partecipanti e anche dalle loro storie. Inoltre, ai candidati non abbiamo voluto mettere limiti di età: i selezionati vanno dai 19 fino ai 60 anni.
L’obiettivo è quindi una rappresentazione a 360°, in cui lo schermo diventa specchio anche di quello che ci sta dietro.
MG: Si tratta di quello che dico sempre agli attori: il doppiaggio migliore è quello che si ottiene quando lo schermo diventa uno specchio di ciò che sei, di come ti muovi o di come pensi.
Anche perché, per ritornare all’esempio della comunità lgbtqia+, negli anni abbiamo visto ad esempio personaggi omosessuali che, doppiati da attori eterosessuali, finivano con lo scadere nella macchietta.
MG: Lo specchio in quei casi non c’era proprio. L’autenticità è uno dei punti chiave per noi. Ma lo stesso può accadere anche quando prendi un attore gay che si porta dietro retaggi di rappresentatività sbagliati. Personalmente sono commosso anche da un altro progetto che stiamo seguendo, in cui abbiamo nove persone, tre con sindrome di Down e sei autistiche di diversa natura: il loro entusiasmo e la loro energia insolita sono indescrivibili. Il nostro obiettivo è dare opportunità: dal mio punto di vista, vince sempre il talento e nessuno ha trattamenti di favore rispetto agli altri. Ricadremmo altrimenti in una certa forma mentis che sottolineerebbe ancora una volta la diversità.
Qual è il progetto più spinoso a cui il team di doppiaggio di Netflix si è ritrovato a lavorare?
CS: Paradossalmente, sembrerà assurdo, ma è stato un cartone animato interattivo in cui tutti i personaggi erano genderless. È stata una bella avventura: abbiamo lavorato a stretto contatto con gli adattatori e sostenuti dal nostro language manager, Saverio Perrino, che si occupa di tutti i temi linguistici. Per noi è importantissimo sempre lavorare in tandem con lui. Abbiamo fatto diverse riunioni per cercare di stabilire quale linguaggio utilizzare dal momento che quello del neutro, come si diceva prima, rappresenta uno dei temi più complessi. Mi ripeto ma da un certo punto di vista nessuno deve inventare nulla: è importante rimanere in contatto con la comunità e rappresentare sullo schermo quello che le persone sentono giusto per loro. Con un pizzico di creatività anche in una serie lunga è possibile evitare qualsiasi aggettivo o pronome maschile o femminile.
MG: Per quanto concerne noi, uno dei doppiaggi più difficili è stato quello del film Clockers di Spike Lee. In un primo momento, pensavo che non potesse nemmeno essere doppiato. C’erano riferimenti culturali che non potevano essere compresi e in più gli attori per la maggior parte del film non recitavano ma rappavano. In certi casi sarebbe meglio lasciare i prodotti in originale con i sottotitoli.
(Il doppiaggio inclusivo: L’incontro tra 3Cycle, Netflix e Diversity - 1 - Continua)