Il doppiaggio inclusivo: L’incontro tra 3Cycle, Netflix e Diversity – 2
3Cycle, in collaborazione con Diversity e con il supporto di Netflix, ha organizzato la prima edizione del Corso in Recitazione e Scrittura applicate al Doppiaggio che punta sui valori della Diversity & Inclusion (d’ora in poi, brevemente, doppiaggio inclusivo). TheWom.it ha avuto la straordinaria opportunità di partecipare a una delle giornate dedicate al corso, assistendo alle lezioni e agli incontri e incontrando chi questo progetto lo ha voluto e sostenuto senza se e senza ma.
Il corso di doppiaggio inclusivo riunisce le eccellenze del doppiaggio e dell’adattamento italiano e docenti dal mondo dell’attivismo per formare nuovi talenti per il settore, valorizzando la qualità tipica dell’approccio italiano con nuove competenze, nuove sensibilità e nuove voci.
Dicevamo prima che sono tre le realtà che hanno unito le loro forze per il doppiaggio inclusivo. La prima è 3Cycle, società di post-produzione e doppiaggio che, attiva dalla fine del 2013, ha alle spalle oltre quarant’anni di esperienza, ben rappresentati dalla figura del suo amministratore delegato, Marco Guadagno. La seconda è Diversity, la fondazione no profit impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione e nello spingere a un cambiamento, sempre più prossimo e importante, che sia veramente inclusivo e valorizzi ogni unicità. La terza, infine, è Netflix, il colosso dello streaming da sempre attento che i suoi prodotti rispettino standard di inclusione su tutti i fronti.
Dopo aver colloquiato con Marco Guadagno, amministratore delegato di 3Cycle, e Claudia Simonetti, dubbing manager Netflix Italia, abbiamo assistito a una delle lezioni con i docenti di Diversity: Gabriella Crafa, Gabe Negro, Grace Fainelli, Esperance Hakuzwimana e Marina Cuollo. E una delle prime lezioni fondamentali che si apprendono è forse la più semplice, come la stessa Gabriella Crafa, vicepresidente di Diversity, ci confermerà tra poco: per un lavoro di doppiaggio che sia realmente inclusivo, si deve partire da un socratico “so di non sapere”.
Il so di non sapere è essenziale quando si vanno a doppiare o adattare realtà che non si conoscono a pieno. Del resto, una delle attività di Diversity sin dalla sua fondazione è quella di consulenza alle aziende che vogliono promuovere il valore dell’inclusione sia internamente sia esternamente. Non è un caso che Netflix Italia abbia richiesto il supporto di Diversity per diversi prodotti della piattaforma: ammettere di non sapere è il primo passo per allargare i propri orizzonti.
Sono tante le questioni che gl* student* del corso di doppiaggio inclusivo sollevano e a cui Gabriella Crafa prova a dare una risposta, dalla rappresentazione dei neri a quelle delle persone transgender. E non mancano nemmeno le divergenze di opinioni, ad esempio, sull’introduzione “forzata” di personaggi all’interno delle storie che, usati come contentino per i gruppi sottorappresentati, finiscono in realtà per scontentare tutti.
Mossi anche noi dal so di non sapere, abbiamo voluto rapportarci con Gabriella Crafa per capire come mai Diversity abbia accettato di collaborare con 3Cycle e Netflix per il corso di doppiaggio inclusivo. Ma non ci siamo fermati a quello. La nostra discussione ha voluto soffermarsi su alcuni punti in particolare: il linguaggio corretto in ottica di Diversity and Inclusion e l’accessibilità nel mondo del lavoro da parte di chi viene tenuto in posizioni marginali da chi detiene il potere, solitamente uomo.
INTERVISTA ESCLUSIVA A GABRIELLA CRAFA
Quanto è importante in ottica di D&I lavorare sul linguaggio corretto?
I linguaggi hanno il grandissimo potere di condizionare il reale, di creare la realtà stessa e di formare l’immaginario collettivo. Pensiamo ad esempio al potere delle serie tv e del mondo dell’intrattenimento: hanno un peso evidente e fortissimo. Assistiamo da dieci anni a un’evoluzione che ha l’indubbio potere di influire sulla realtà ma mancano ancora le parole giuste per riferirsi a tale realtà. Negli anni, diverse serie tv ci hanno raccontato realtà che in originale venivano chiamate con termini precisi ma che non avevano corrispettivi in italiano: si assisteva a un fenomeno di storpiatura che aveva un impatto veramente negativo.
Non parlo solo dei termini usati per riferirsi a parte della comunità lgbtqia+ ma anche di tutti quelli che hanno a che fare in modo vario con il mondo della disabilità, delle etnie, etc. In italiano, mentre in alcuni casi non vengono scelte le parole appropriate, in altri non abbiamo proprio degli analoghi, così come non abbiamo dei corrispettivi per tutti quei termini neutri che rispecchiano temi particolarmente attuali.
Non abbiamo bisogno di trovare polarizzazioni o di individuare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Abbiamo semmai un bisogno fortissimo di creare un approccio comune e rispettoso di ogni identità: non saranno solo lo schwa o l’asterisco la risposta. Necessitiamo di una collaborazione molto più ampia, che coinvolga tutti gli enti di socializzazione sia primaria sia secondaria, tra cui anche quelli dell’intrattenimento.
Oggi ci ritroviamo a parlare di Netflix, che ha avviato un progetto da questo punto di vista innovativo. Ma non dobbiamo dimenticarci del lavoro che andrebbe fatto con la televisione generalista.
Limitandoci alla tematica etnica, è come se ci fossimo persi. Il razzismo da noi ha le sembianze del barcone ma è sistemico perché si annida in ogni aspetto sociale e politico, lasciando indietro quelle generazioni che sono a pieno titolo italiane e sono parte fondamentale della nostra società: la localizzazione dei temi legati alla D&I rappresenta una chiave di lettura importantissima.
Dimentichiamo poi spesso che in Italia abbiamo anche un nord e un sud, che c’è ancora un digital divide che genera un divario ancora troppo consistente e che la televisione generalista stessa ha ancora un impatto fortissimo: se non passano da lì determinati contenuti, è come se non esistessero. Ricordo un dato agghiacciante di due anni fa emerso dalle nostre analisi: solo lo 0,01% delle notizie del mondo dell’informazione riguardava il mondo della disabilità.
Qual è il peso che gioca il mondo della serialità?
Il mondo della serialità oggi potrebbe fare la differenza, raggiungendo tantissime persone. Le piattaforme fanno un lavoro sicuramente più profondo, migliore. Netflix ha giocato un ruolo importante raccontando attraverso produzioni prevalentemente estere una realtà che da noi non era mai arrivata, con una fedeltà di rappresentazione incredibile e con dei tratti di profondità, di complessità e di realismo anche maggiore. Vediamo prodotti in cui i personaggi non sono messi lì per caso o perché lo richiede il mercato: ci sono delle storyline che finalmente restituiscono un’umanità a tutto tondo.
Dal punto di vista della rappresentazione, anche a livello attoriale e non solo del doppiaggio, quanto è importante che lo spettatore si riveda nello schermo? Siamo figlie e figli, ad esempio, di una tradizione che voleva il personaggio gay interpretato da un attore eterosessuale, con il rischio della macchietta in agguato.
Viviamo in un mondo di razzismi sistemici e di esclusioni sistemiche. C’è sicuramente un primo problema politico alla base, di pipeline: non c’è un accesso alla professione garantito per tutte quelle persone appartenenti ai gruppi sottorappresentati. È un discorso di accessibilità al mondo del lavoro in generale, non riguarda solo il mondo dell’intrattenimento ma tutte le organizzazioni in Italia. Analizziamo la composizione delle aziende, partiamo dal capo e scendiamo fino all’ultima personale: i dati ci dicono che nelle nostre organizzazioni non è affatto rappresentato quel 5% di persone con disabilità che compone la popolazione italiana, men che meno nei ruoli chiave.
Dovremmo dunque avviare un percorso di equità atto a garantire perlomeno le stesse opportunità a tutti-e le persone.
Spesso si risponde che si ragiona per merito o non per quota.
È un po’ l’alibi di chi non conosce la realtà. È una considerazione un po’ ingenua e superficiale, avulsa dalla realtà dei fatti. Il tasso di abbandono scolastico delle persone con disabilità e transgender è enorme e non dimentichiamoci del numero di suicidi delle persone transgender. Parliamo di persone che forse nemmeno arrivano al mondo del lavoro. In determinati ambiti, assistiamo a una perdita di percorso incredibile che riguarda le donne, pensiamo alle discipline stem. Stendiamo poi un velo pietoso sulle possibilità di carriera all’interno delle organizzazioni. Ecco perché parlo di problema sistemico che deve essere compreso e risolto, non strumentalizzato.
E oltre al problema politico?
Oltre a quello politico, c’è un problema di identità: ci dovrebbe essere un minimo di corrispondenza, uscendo dalla stereotipizzazione dei personaggi. Si dovrebbe dare consistenza alla realtà rappresentata e questo negli anni ha portato a diversi scivoloni. Se pensiamo al mondo del doppiaggio, un caso famoso è stato aver doppiato Laverne Cox con la voce di un uomo cisgender, mettendo in difficoltà anche lo stesso doppiatore (Roberto Pedicini). È evidente a tutti che una donna transgender non possa essere doppiata da un uomo cisgender: non è solo un problema di corrispondenza vocale ma entra in gioco tutto ciò che come persona ci si porta dietro. Questo si aggiunge al fatto che non esiste una congrua diversificazione del settore.
Proprio su Netflix c’è un documentario che andrebbe visto: Disclosure. Protagonisti sono attrici e attori transgender che raccontano di come si sono visti rappresentati sullo schermo nel corso degli anni. Parlano di rappresentazione pura e ripercorrono come la nostra cultura soprattutto cinematografica ci abbia trasmesso delle immagini piuttosto univoche da quel punto di vista, con situazioni troppo spesso discutibili. Quante volte abbiamo visto un uomo pulirsi la bocca dopo aver scoperto che la persona che aveva incontrato o baciato era transgender? Ma cosa siamo stati in grado di produrre? Che cosa siamo stati in grado di vedere senza sentire un pugno nello stomaco?
Per non parlare poi della lettura dei personaggi transgender. Sono tipicamente assassini, assassine, prostitute, doppiogiochiste… tutte caratteristiche che possono certamente esistere come in tutta l’umanità ma che non possono essere sempre le sole e le uniche. Nello scrivere di personaggi sottorappresentati si ha una grande responsabilità: chi non appartiene alla comunità di riferimento dovrebbe partire da un socratico “so di non sapere”. Ci si dovrebbe mettere in discussione e chiedere a chi sa.
Ricordo che con Diversity abbiamo fatto dei lavori profondi di accompagnamento con attori, attrici, doppiatori e doppiatrici che, non all’interno delle comunità dei loro personaggi, avevano bisogno di essere guidati. E torniamo ancora una volta al problema della pipeline: non c’erano persone o voci della comunità disponibili per quel ruolo.
Ed è anche il motivo per cui ci ritroviamo oggi a parlare del progetto portato avanti da Diversity con Netflix e 3Cycle. Al centro c’è il doppiaggio ma quando si parla di doppiaggio non si può non partire dall’adattamento, dal momento in cui si deve mettere mano a un prodotto estero e renderlo accessibile in italiano. Quanto è difficile partire dal “so di non sapere”?
È difficilissimo. Viviamo in un’epoca in cui tutti partiamo dal presupposto di sapere. Ammettere di non sapere è una pratica sia di umiltà sia di professionalità. Sempre più realtà si stanno rivolgendo a Diversity, manifestando la necessità di essere supportate nel processo di adattamento. L’adattamento deve dar voce alla pluralità di rappresentazione da cui siamo investiti ma che non riusciamo a capire come trattare ma allo stesso tempo comporta un livello di artigianalità incredibile: occorre saper plasmare una lingua per restituire determinati significati nel rispetto del prodotto originale ma adattandoli alla nostra cultura. È un’operazione affascinante e suggestiva.
Al di là della pratica artistica, l’adattamento ha però un problema concreto, soprattutto con i prodotti in lingua inglese: si deve tradurre il neutro. Non è un’operazione facile. Implica non solo il mettersi in discussione ma anche l’acquisizione di strumenti che non si hanno. Vuol dire capire nel dettaglio che cosa significa parlare di disabilità, quali sono le parole e gli atteggiamenti deprecati, conoscere i toni e le connotazioni delle voci.
Al pari della rappresentazione, il doppiaggio poi deve fortunatamente fare i conti con un aspetto di non poco conto: il pubblico a casa. Le persone a casa, non solo quelle appartenenti alle varie comunità, sono molto più sensibili rispetto al passato e reclamano a gran voce una rappresentazione veritiera. Penso alla famosa Gen Z: naviga sui social e ha la fortuna di imbattersi sempre più in determinate tematiche, ha una consapevolezza maggiore e ciò deve essere da sprone a far meglio.
Ecco perché si deve creare una profonda sinergia fra chi appartiene ai gruppi sottorappresentati e chi deve rappresentarli. Bisogna sedersi intorno a un tavolo e comprendere bene le realtà, i temi reali e le parole da usare. Il neutro è un problema? Ricorriamo a scelte condivise, a giri di parole se non conosciamo quale pronome gli attori o i personaggi usino per loro.
Da questo punto di vista, è interessante notare come si stia diffondendo anche l’uso dei pronomi per attori o personaggi anche nei pressbook, nei materiali scritti destinati alla stampa.
Basti pensare anche come Linkedin abbia introdotto i pronomi anche nei profili degli iscritti. È uno strumento magari non compreso dal 70% delle persone ma che offre uno spunto educativo veramente enorme. Qualcosa si sta muovendo ma ciò che ha fatto la differenza negli ultimi anni è stato proprio il mettersi al tavolo insieme, il ragionare su cosa fare e spingere insieme un cambiamento necessario e ineluttabile.
Un po’ quello che hanno fatto Diversity, Netflix e 3Cycle per questo progetto.
Con Claudia Simonetti, dubbing manager di Netflix, abbiamo cominciato a collaborare più di tre anni fa. C’è stata l’urgenza sin da subito di trovare soluzioni legate alla rappresentazione. E una delle prime cose che ci è saltata all’occhio era legata al tema della pipeline, alla mancanza di opportunità nel settore per i gruppi sottorappresentati. Abbiamo iniziato a pensare allora a un percorso di professionalizzazione che desse opportunità concrete e che permettesse anche di sopravvivere in un mercato sempre più competitivo.
Il progetto si è poi concretizzato quando ci siamo resi conti, anche con Marco Guadagno, che le esigenze di rappresentazione aumentavano di giorno in giorno: arrivavano dall’estero prodotti che parlavano di autismo, disabilità, etnie o identità di genere con una rappresentazione decisamente più rispettosa rispetto al passato e che reclamavano a gran voce un processo di localizzazione altrettanto rispettoso.
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