“È un capezzolo maschile: sto censurando abbastanza?” Intervista alla fotografa Irene Tomio
Quelli che vedete nella foto in copertina non sono due capezzoli femminili. Se guardate attentamente, sono due capezzoli maschili: stessa forma, differente significata e diversa reazione da parte dei fantomatici e ormai fatidici algoritmi dei social media ma anche di Google. Fa sorridere amaramente come nel 2023 i capezzoli femminili, secondo tali algoritmi, siano da nascondere, vietare e censurare.
Il sorriso diventa ancora più amaro quando si pensa che non molti mesi fa una foto di Tommy Lee con il “coso” in bella vista ha campeggiato sui social per quasi 24 ore prima che Meta si muovesse sollecitato dalle segnalazioni di utenti e non d’ufficio. Paradossalmente, secondo l’algoritmo, il pene di un uomo fa meno scalpore dei capezzoli femminili, le cui immagini solitamente vengono oscurate e rimosse nel giro di pochi minuti.
Si tende a pensare che l’esigenza di una donna di pubblicare un proprio autoscatto con i capezzoli in evidenza sia un capriccio. Ovviamente, non lo è. Entriamo a gamba tesa nell’ambito dell’autorappresentazione e della libertà di non vedere oscurare una parte di sé con stelline, cuoricini o altri mezzucci vari forniti da adesivi o emoticon. Sostanzialmente, prendendo le giuste distanze, non è lontano dalle esigenze delle donne iraniane di andare in giro senza velo.
Ma cosa fa paura dei capezzoli femminili? Cosa scardinano nella mente di chi osserva? Una risposta certa non c’è ma molto dipende dalla sessualizzazione che ne viene fatta da un occhio dominato dalla cultura patriarcale di massa. I capezzoli femminili diventano dunque oggetto del desiderio dell’occhio concupiscente di chi guarda. Il confine è sottile ma la questione sta tutta nel significato che si associa: i tuoi capezzoli sono miei, li vedo io nell’intimità e ti serviranno per allattare tuo figlio.
E tutto questo nel 2023 quando il rapporto con il proprio corpo dovrebbe essere intimo e personale. Il corpo è mio e lo gestisco io, urlavano le femministe di un tempo ma è valido ancora oggi. Ha fatto il giro del web e dei quotidiani la notizia per cui Meta avrebbe intenzione di non censurare più i capezzoli femminili. Tuttavia, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: la realtà è ben altra. Meta starebbe valutando l’ipotesi di sottoporre la questione ai suoi consiglieri. Da chi sia composto tale consiglio non si sa. Quanti uomini? Quante donne? Quanti rappresentanti dei gruppi sottorappresentati (già di per sé, questo è un ossimoro)?
Nel frattempo, mentre Meta valuta e si consiglia, qualcuno ha trovato un modo originale per trattare con un pizzico di ironia e provocazione la questione. Si tratta della fotografa Irene Tomio. Da anni dietro le quinte del settore del cinema, Irene Tomio ha avuto un’idea semplice ma alquanto geniale: sostituire i capezzoli femminili con quelli maschili, attraverso una serie di scatti inclusivi. Un progetto, il suo, che è appena nato e che lei ama definire on going, in divenire. Lo ha chiamato, sardonicamente, This is a Male Nipple: Am I Censored Enough?: questo è un capezzolo maschile, sto censurando abbastanza?.
Ma lasciamo che a raccontarlo sia lei stessa, in questa intervista in esclusiva.
Intervista esclusiva a Irene Tomio
Tendiamo tutti a pensare che il mondo dei social sia libero ed egualitario, che concede le stesse opportunità a uomini e donne non soffermandosi alle differenze di genere. Eppure, Instagram è lo stesso social che permette a Tommy Lee di apparire nudo per diverse ore e che censura i capezzoli femminili nel giro di pochi secondi.
Il progetto This is a Male Nipple: Am I Censored Enough? nasce proprio da questo spunto. L’idea è nata parecchio tempo fa, nel maggio dello scorso anno. Sono appassionata di fotografia da tantissimo tempo, la coltivo come passione personale. Lo scorso maggio ho partecipato a un progetto di fotografia collettiva femminile sul corpo delle donne, organizzato da Immagini in Movimento di Bergamo e dalla fotografa Michela Taeggi. Nei nostri incontri affrontavamo un po’ vari temi legati al corpo femminile e a ogni incontro noi partecipanti, tutte donne, avevamo la consegna di una foto che in seguito avrebbe dato luogo a una serie fotografica di quattro foto.
Lavorando al progetto sull’autoritratto di nudo e ragionando sulla sessualizzazione del corpo della donna, sui ruoli sociali e sulla censura del corpo, ho iniziato a pensare quanto questa censura non fosse soltanto di forma ma di sostanza. E di fatti una limitazione di espressione.
La censura sul corpo femminile si riversa anche sull’arte in generale, non solo sulle foto. Assistiamo a quadri censurati in maniera ridicola, con cuoricini, stelline o fiorellini sui capezzoli. È qualcosa che mi ha sempre dato fastidio, vedere una bella foto o un’opera d’arte ridicolizzata: ecco perché mi è venuta in mente l’idea di scattare una foto di me stessa che avesse un forte messaggio politico, anche se in maniera ironica. Mi sono detta: “proviamo a sostituire il capezzolo di una donna con quello di un uomo”. Nella forma è identico, ma cambia nella sostanza.
L’obiettivo era quello di proporre degli interrogativi provocatori dato che c’è molto ancora da lavorare sulla normalizzazione del corpo e, quindi, sulla percezione che se ne ha. La foto, fuori dal coro rispetto alle altre, non è rientrata nella serie per il progetto precedente ma ogni tanto mi tornava in testa. Mi sembrava un’idea interessante da proporre: nella sua semplicità immediata, poter far riflettere chiunque l’avrebbe vista. Ed è da quella intuizione che è partito tutto il progetto This is a Male Nipple: Am I Censored Enough?.
I corpi rappresentati appartengono a persone di diversa fascia di età e identità sessuale.
Si, qualche mese dopo, ho cominciato a fare i casting. Inizialmente avevo immaginato di scattare solo foto delle donne recuperando i capezzoli maschili dal web, poi si è fatta largo l’idea di un progetto partecipato, volevo che quei capezzoli in prestito avessero un nome e un cognome, che fosse dimostrabile la loro provenienza, per aggiungere valore a questo gesto simbolico di condivisione.
I soggetti rappresentati sono tutti modelli non professionisti. Ovviamente, sono partita da persone vicine a me che avrebbero potuto sposare l’idea. Partendo dalle amicizie, il progetto si è allargato a macchia d’olio. Sono entrata in contatto con persone che ritenevano l’idea a loro affine. E alla fine sono stati tutti molto entusiasti del lavoro fatto, anche se avrei voluto spaziare molto di più.
Ci sono diverse tipologie di persone rappresentate e di tutte le età. Per me, era fondamentale anche sottolineare come il paradosso della censura non tiene conto dell’identità di genere e di come le persone si percepiscono e vogliono autorappresentare. Mi sarebbe piaciuto avere anche altri tipi di soggetti ma, nell’attesa che si presentino, ho fatto partire il tutto. Questo è il motivo per cui considero This is a Male Nipple: Am I Censored Enough? un progetto on going: non escluso la possibilità di poter organizzare altri appuntamenti e shooting.
Anche perché i corpi da rappresentare sono tanti, da quelli delle persone transgender a chi ha subito interventi chirurgici. La libertà di mostrarsi come si vuole e non come vogliono gli altri è un diritto inalienabile di ognuno di noi. La battaglia per mostrare i capezzoli femminili, con le dovute differenze, non è differente da quelle che conducono le donne in Iran.
Il principio di base è lo stesso, senza volermi per nulla paragonarmi alle donne che in questo momento rischiano la vita per la loro libertà. È una battaglia importantissima. Ho scattato queste fotografie intorno alla fine di settembre, e proprio in quei giorni c’erano delle manifestazioni anche a Roma a cui ho preso parte anch’io. E mi sono chiesta in quel momento se fosse giusto il modo in cui avevo scelto di affrontare un argomento così delicato: temevo di essere inopportuna, irrispettosa, poi mi sono detta che questo è solo uno dei modi possibili e che tutti gli infiniti modi di affermare lo stesso principio contribuiscono allo stesso scopo. La mia volontà, ovviamente, non è quella di minimizzare l’argomento, anzi… Penso che a volte l’ironia e la provocazione possono essere la chiave immediata per far riflettere e raccontare tematiche molto, molto profonde.
La percezione delle nostre sensibilità non deve passare per un calcolo matematico così come non deve passare per una presa di potere o affermazione dello stesso.
L’algoritmo appiattisce e non riesce a fare distinzioni. Ma il problema è anche culturale. Spesso e volentieri davanti a un autoritratto mi interrogo sul perché sempre molte più donne sentano il bisogno di autorappresentarsi e sulla reazione di chi sta dall’altra parte. Spesso, la reazione è quella del turbamento. Culturalmente e storicamente, anche nel mondo dell’arte, la rappresentazione del corpo femminile è stata appannaggio degli uomini: pittori, scultori, fotografi…
Quando ci si autorappresenta, quando si sceglie di mostrare la propria immagine nella forma in cui più la si riconosce, si compie un atto politico. Perché l’autoritratto ha la forza dirompente della scelta agita, è un atto di coraggio dettato dalla necessità di raccontarsi e mettere in piazza le proprie battaglie, è espressione di libertà e chi è libero spesso fa paura.
E questa libertà va preservata, non lasciamo che siano gli altri a definirci o tantomeno un algoritmo a decidere quali immagini siano giuste e quali no.
Occorre scardinare ciò: sarà il compito dei ragazzi che crescono, della Generazione Z, farlo.
Assolutamente. Hanno loro il compito di far passare il messaggio che si deve piacere solo a se stessi, di aderire a quella che l’idea della propria autorappresentazione libera da preconcetti e pregiudizi. Il proprio sentire e la propria percezione hanno lo stesso valore di quelle di chi guarda. La Generazione Z da questo punto di vista sta facendo degli enormi passi in avanti: rispetto al passato, sta cambiando qualcosa ed è già un buon segnale.
Fino a qualche anno fa le donne che manifestavano a seno nudo venivano arrestate…
Ma accade ancora oggi. Prima di far partire il progetto, mi sono documentata su cosa avviene nel mondo. Ci sono Paesi, anche nell’America di oggi, dove è vietato alle donne di mostrare il seno nudo. Negli Stati Uniti, una donna non può allattare in pubblico: è assurdo.
Al progetto è legata una pagina Instagram appena nata. Quali sono stati i primi commenti?
In attesa di poter organizzare una mostra fisica (devo trovare la cornice giusta per farlo, non è detto che accada), vista l’idea centrale del progetto che chiama in causa l’algoritmo e i social network, ho deciso di lanciarlo sul web con un sito internet (www.irenetomio.com) a cui è abbinata la pagina social su IG @amicensoredenough.
Ci stavo lavorando per debuttare a febbraio inoltrato, ma la notizia della presunta volontà di Meta di rivedere le sue policy sulla censura mi ha spinta ad anticipare i tempi. Dico presunta perché in realtà se ne sta discutendo dopo che una coppia transgender ha fatto causa al colosso per alcune foto censurate, sull’esito ancora nessuna certezza.
La reazione è stata finora molto positiva, anche se l’algoritmo di Instagram al momento rende faticosa la diffusione delle idee: io stessa fatico a seguire i contenuti delle persone o di fotografi che apprezzo e seguo, proprio perché è cambiata la logica dietro ai contenuti che ti vengono proposti. La priorità viene data a ciò che movimenta denaro, banale a dirsi ma è così. Comunque sia, l’accoglienza è stata finora calorosa. Mi scrivono amici e non che hanno apprezzato il progetto: segno che l’idea funziona e arriva dritta al cuore della questione.
Nessun commento bacchettone?
Arrivano anche quelli. Pochi finora, almeno quelli che ho individuato, ma arrivano. L’altro giorno una persona che conosco e che non sentivo da secoli mi ha scritto in privato “ma con tutti i problemi che ci sono nel mondo, ci preoccupiamo dei capezzoli?”. Non ho risposto perché non mi andava di far polemica: è il classico commento sterile… Non ho la pretesa di risolvere tutti i problemi del mondo o sulla parità di genere ma occorre che ognuno di noi si faccia portavoce dei principi in cui crede.
Tutti dovrebbero provare a rimettersi al centro, a diventare manifesto di loro stessi senza paura.
Irene Tomio
Il problema delle differenze di genere è un problema del mondo. Tu hai alle spalle un percorso di crescita e di formazione che è lontano da quello della fotografia. Quante volte ti sei ritrovata a confrontarti con le conseguenze derivanti dagli stereotipi di genere?
Tante… siamo circondati, gli stereotipi di genere sono così radicati nella nostra cultura che è impossibile restarne alla larga. Tutti coloro che subiscono una discriminazione, non solo di genere, dovrebbero trovare la loro voce e non aver paura di esprimere la loro posizione. Quando ho cominciato a pubblicare autoritratti, anche di nudo, ho ricevuto critiche velate anche da persone vicine, celate dietro presunte battute innocenti ed il mio primo istinto era stato l’auto-censura. Ma ero mossa da una mia profonda esigenza di espressione artistica a cui ad un certo punto ho deciso io per prima di dare dignità, e chi era intorno a me si è dovuto adeguare. Tutti dovrebbero provare a rimettersi al centro, a diventare manifesto di loro stessi senza paura.