PhEST, il festival di fotografia che ribalta lo sguardo attraverso il “sogno”
«Il tema della nona edizione di PhEST è il Sogno, cercavamo un terreno comune in un momento in cui tutto sembra vacillare, lo abbiamo trovato nell’inconscio collettivo junghiano - spiega Giovanni Troilo, direttore artistico PhEST - Sfruttando l’ambiguità semantica, PhEST esplora anche il sogno come aspirazione».
Sogno come tensione e aspirazione: attraversare PhEST è immaginare un mondo nuovo nelle 33 mostre e installazioni di artistə internazionali e nazionali che si muovono ta le strade, le piazze, i palazzi storici e le antiche chiese di Monopoli. Un’esperienza immersiva e onirica che allarga lo sguardo.
Il sogno, bisogno primordiale per immaginare un mondo nuovo
«In questo periodo di grandi squilibri globali e conflitti in estensione, il sogno, tema del festival alla sua nona edizione, diventa un bisogno primordiale, essenziale. PhEST, con il suo sguardo sempre “oltre”: riflessivo, ma anche divertente, empatico e a volte irriverente, vuole contribuire a dare una scossa alle nostre emozioni collettive», spiega Arianna Rinaldo, curatrice fotografica di PhEST.
Non è un caso che la mostra madrina di questa edizione sia la retrospettiva dedicata a Man Ray, uno dei principali esponenti del Surrealismo: ospitata nel castello Carlo V e curata da Roberto Lacarbonara e Giovanni Troilo in collaborazione con l’ASAC (Archivio Storico delle Arti Contemporanee “La Biennale di Venezia”), l’esposizione evidenza il potere catartico degli scatti di Man Ray dove l’onirico diventa reale.
Il sogno si fa ulteriore spazio su cui ritrovare identità condivisa e la fotografia si svincola dalla rappresentazione dipingendo invece quello che non può “scattare”
L’universo femminile è al centro dello sguardo di Man Ray. Lee Miller e Berenice Abbott, muse e assistenti poi diventate due tra le maggiori fotografe del periodo. Dora Maar, Meret Oppenheim, Kiki de Montparnasse, Nusch Eluard, Juliet Browner, la compagna di una vita: sono solo alcune delle donne “catturate” da Man Ray in immagini perturbanti, allusive e sperimentali, testimoni di una ricerca sul corpo femminile in bilico tra memoria classica e avanguardia.
Con il tempo, molte di queste modelle riuscirono ad affermarsi non semplicemente come muse, ma come protagoniste a tutti gli effetti della scena artistica del primo Novecento
Lee Miller, celebre modella lanciata da Vogue nel 1927, scelse – dopo essere stata immortalata dai più importanti fotografi dell’epoca, Edward Steichen, George Hoyningen-Huene, Arnold Genthe – di passare dall’altra parte dell’obiettivo. Miller elaborerà anche la tecnica della solarizzazione, che conferisce una linea nera attorno all’immagine.
La scoperta avvenne per caso in camera oscura mentre sviluppava alcuni negativi che furono sovraesposti. La condivise con Man Ray ed entrambi utilizzarono l’innovativa tecnica nel loro lavoro: tuttavia, nel tempo, a Miller non è stato riconosciuto il merito allo stesso modo.
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Ribaltare lo sguardo, le artiste in mostra
Ma non è lo sguardo maschile che predomina PhEST. Le artiste in mostra portano il loro mondo e lo lasciano attraversare, rendendo politica anche l’intimità. L’artista polacca Michalina Kacperak, ad esempio, nella sua pratica fotografica lavora sia come documentarista che come artista. La parte più importante del suo lavoro è dedicata a storie personali e complesse che trattano temi legati all’infanzia, alla memoria, all’esclusione sociale e all’identità.
“Soft Spot”, in mostra a Palazzo Palmieri, è un progetto collaborativo iniziato con la sua sorellina sedici anni più giovane e racconta una storia personale che può essere quella di molti altri. Michalina è la maggiore di quattro figlie di un padre alcolizzato, attualmente sobrio. La loro infanzia è stata una lotta costante contro la solitudine, l’instabilità, la mancanza di intimità e un perenne senso di colpa.
Lisa Sorgini, fotografa australiana nota per la sua ricerca di storie e immagini di maternità, si concentra sui ruoli legati alla cura, sulle relazioni materne e familiari e indaga le percezioni e i costrutti della società, spesso in netto contrasto con l’esperienza vissuta.
Ai Tamburi, il quartiere più duro e spietato di Taranto, Sorgini trova davanti a sé madri guerriere che nutrono e proteggono, vivono il momento, lo rendono più carico d’amore, sicurezza e dolcezza possibili, e che oltre le “colline avvelenate” sanno guardare.
Stabilisce un contatto potente e profondo con questi fiori d’acciaio, aderisce al loro battito, consegna la realtà che ha visto, la consegna intatta, vivida, indomita
La genealogia femminile parla attraverso l’arte: Polina Osipova, con “The Heart of Dreams”, esplora i fili tra passato e futuro attingendo e riflettendo sulle esperienze delle sue antenate. Le abilità del ricamo sono tramandate di generazione in generazione, così Osipova utilizza queste tecniche tradizionali per creare maschere ornate di perle, sculture tempestate di pietre preziose, armature e abiti medievali che sembrano uscire da una fiaba dai tratti oscuri ma irresistibilmente attraente.
La tradizione accoglie il presente con Natalie Karpushenko: artista, fotografa e ambientalista, nata in Kazakistan, porta in mostra la natura e l’elemento umano. Per la prima volta in Italia, le immagini sognanti di Karpushenko sono esposte come simbolo del loro legame.
Il futuro, invece, è affidato a Polina Kostanda: artista ucraina, ha abbracciato il potere dell'intelligenza artificiale per creare arte visiva stimolante e in grado di espandere la mente.
Le sue opere d’arte non sono semplici immagini digitali, ma portali verso nuovi luoghi della percezione che invitano chi guarda a mettere in discussione la comprensione della realtà e abbracciare le possibilità illimitate dell'immaginazione umana.
Raccontare il presente, il focus dedicato alla Palestina
Non si può sognare troppo a lungo se il reale non diventa ispirazione per un futuro diverso. Da questo obiettivo nasce il Focus Palestina, con una memoria fotografica della Palestina tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo tratta dal libro “Against Erasure” che racconta la storia di una terra piena di persone con famiglie, speranze, sogni e un profondo legame con la propria casa, prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948.
Si aggiungono artisti e sguardi inediti: Adam Rouhana è un artista e fotografo palestinese-americano che vive tra Gerusalemme e Londra. La fotografia di Rouhana lavora per decostruire l’orientalismo attraverso la sua lente soggettiva all’interno del contesto più ampio della Palestina. Iniziato nel 2022 e scattato a Gerusalemme, Gerico, Haifa, Hebron, Betlemme negli ultimi due anni, “Before Freedom” mostra l’intero prisma della vita in un luogo di cui si parla così spesso ma raramente visto nella sua quotidianità: i bambini giocano, gli amici nuotano e le famiglie fanno picnic, e il tempo scorre ininterrotto. “Before Freedom” è una rivendicazione della terra, dell’architettura, della gioia e dell’amore palestinesi, e presenta un’importante contro-narrativa alla narrazione tradizionale.
Antonio Faccilongo, invece, è un fotografo documentarista italiano che focalizza la sua attenzione sull'Asia e sul Medio Oriente, principalmente Israele e Palestina, occupandosi di questioni sociali, politiche e culturali. “Habibi”, che significa "amore mio" in arabo, racconta storie d'amore ambientate sullo sfondo della guerra.
Il fotografo sceglie di non concentrarsi sull’azione militare e sulle armi, ma sul rifiuto delle persone di arrendersi alla prigionia e sul loro coraggio e perseveranza nel sopravvivere in una zona di conflitto
Ad esempio, Faccilongo racconta le storie delle mogli dei prigionieri politici palestinesi che stanno scontando condanne a lungo termine nelle carceri israeliane: per concepire nuovi figli, sono ricorse al contrabbando dalle prigioni dello sperma dei loro cari. Dal 2014, secondo la clinica per la fertilità Razan di Nablus, sono nati circa 90 bambini.
L’inseminazione in vitro è offerta gratuitamente a queste donne poiché i loro mariti sono considerati dalla collettività come dei martiri viventi, i quali hanno rinunciato alla loro libertà per la patria. Sono circa 7000 i detenuti politici palestinesi, e quasi 1.000 di questi hanno una condanna che supera i 25 anni.
Le visite coniugali sono totalmente negate e i prigionieri palestinesi possono vedere i loro familiari più stretti solo attraverso una finestra di vetro. Il contatto fisico è vietato, c’è solo un’eccezione. Ai figli dei detenuti di età inferiore ai 6 anni è concesso un incontro di 10 minuti alla fine di ogni visita, nella quale possono abbracciare i loro padri. In questa occasione, con la scusa di offrire dei regali ai propri figli, i prigionieri inseriscono all’interno di barrette di cioccolato delle provette di fortuna con il loro liquido seminale. Questo è uno dei metodi più utilizzati dai prigionieri per poter avere dei nuovi figli e forse una delle poche speranze di avere una famiglia per le loro mogli.
Maen Hammad racconta ancora la Palestina, questa volta attraverso lo skateboard: nato in Palestina, cresciuto nella periferia americana del Michigan, con “Landing” (la zona di atterraggio) porta in mostra uno sguardo collaborativo sulla possibilità di fuga che lo skateboarding offre ai palestinesi. Una forma radicale di resistenza e di amore per il posto in cui si si è nati e si vive. Il filo rosso che, in mondi opposti, lega i soggetti ritratti e quelli che sono i volti reali di PhEST.
Una signora del posto, nata e cresciuta a Monopoli, all'ingresso della sua abitazione - davanti cui è solita sedere - espone l’immagine della Madonna della Madia rivolgendola verso il mare. Per «ricordarne la storia» e fare in modo che potesse avere sempre lo sguardo verso il posto che l’ha salvata, salvando pure la città: nell’internazionalità di un festival come PhEST, quello che lo distingue è ancora la sua tradizione. Che unisce i popoli quando apre alle diversità, legandoli senza stringere in quello che conta: immaginare, insieme, il mondo che sarà. Dal sogno alla realtà.