La bellezza non è un dovere: da dove nasce il dibattito sul corpo delle donne

Il corpo delle donne è ancora oggetto di dibattito. “Se hai una gamba importante, eviti di mettere la calza a rete”: così il giornalista Davide Maggio ha commentato gli outfit sfoggiati dalla cantante Emma Marrone durante il Festival di Sanremo. La dichiarazione ha infervorito le discussioni sul bodyshaming, ma poco si è raccontato delle cause interiori che legittimano il giudizio sui nostri corpi anche a noi stesse. Da dove nasce l’obbligo di essere belle?

Il dovere della bellezza imposto alle donne nasce molto prima dei social network e dei commenti televisivi: basta guardare all’iconografia classica per accorgersi come il maschile sia rappresentato attraverso l’esibizione della forza o l’espressione di pacata saggezza, mentre l’immagine femminile sia veicolata quasi sempre attraverso i concetti di grazia e bellezza.

Le Tre Grazie dipinte da Sandro Botticelli, emblema della bellezza femminile "eterea"
Le Tre Grazie dipinte da Sandro Botticelli, emblema della bellezza femminile "eterea"

Negli anni, poco è cambiato: sebbene i canoni di bellezza siano mutati, la promozione di un’ideale di bellezza più sfumato non ci ha affatto liberate dall’obbligo di perseguire il massimo sforzo nel raggiungimento di uno standard che è sempre più lontano da noi

“Perché non ti valorizzi? Sai che staresti meglio così?”: nonostante la maggiore consapevolezza sulla validità dei propri corpi sostenuta dal movimento di body positivity, svincolarsi dalla tradizione secolare che ha chiesto alle donne di essere belle a tutti i costi è ancora un’impresa troppo ardua. Anche accettarsi sembra essere l’ennesimo dovere imposto alle donne: dobbiamo per forza stare bene sempre con il nostro corpo?

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C’è sempre un cosmetico nuovo da provare, un trattamento irrinunciabile, un illuminante imperdibile: resiste sempre un’idea aspirazionale di noi verso cui sporgersi

Auto-oggettivazione: parlarne per riconoscerla

Come racconta la scrittrice Giulia Blasi nel suo libro Brutta. Storia di un corpo come tanti (Rizzoli) “essere bella è talmente una necessità sociale che nessuno dirà mai di una donna che è brutta, a meno che non la voglia ferire”. Un’ipocrisia sottile che rivela come lo spazio delle donne nel mondo sia subordinato alla loro capacità di rispondere a parametri di bellezza imposti:

se non sei bella, non puoi occupare spazio nel mondo. Non ti puoi esporre allo sguardo altrui. Questa è la legge non scritta. Se lo fai, preparati a essere perfetta sotto ogni altro aspetto oppure sappi che al primo passo falso pioveranno gli insulti

Si tratta di un processo così rodato e storicamente legittimato che abbiamo imparato a farlo nostro: lo spiega bene lo studio dell’Università di Torino Sui generi: identità e sterotipi in evoluzione?, a cura di Norma De Piccoli e Chiara Rollero. Le studiose evidenziano come il processo psicologico dell’auto-oggettivazione, inteso come il continuo monitoraggio del proprio corpo, possa “aumentare nell’individuo la vergogna e l’ansia e diminuire la consapevolezza degli stati corporei interni comportando numerosi rischi per la salute mentale”

Dunque: è vero che occorre ignorare i giudizi esterni, come quelli del giornalista Maggio, ma è anche vero che la teoria dell’oggettivazione ha colpito e scavato nel profondo di tante donne. Per questo, il dovere di essere belle rimane ancora una sfida difficile

Per misurare il costrutto della Teoria dell’oggettivazione, McKinley e Hyde hanno sviluppato una scala costituita da tre componenti.

Il primo elemento è la sorveglianza del corpo: il grado in cui le donne, esattamente come un osservatore esterno, vedono il proprio corpo come un oggetto da guardare. Il secondo elemento è la vergogna, ovvero l’interiorizzazione delle norme di bellezza culturale: quando accade, le donne pensano che il raggiungimento degli standard di bellezza proposti sia possibile, anche davanti a evidenze opposte. Il terzo elemento si basa sul presupposto che alle donne venga insegnato a credere di essere responsabili per il loro aspetto e di avere l’obbligo di modificare se stesse quando necessario.

In questo processo, l’auto-oggettivazione porta auto sorveglianza, vergogna del corpo e nei casi più gravi disturbi alimentari, sessuali e dell’umore. Si aggiungono conseguenze importanti in termini di autostima, affermazione personale e professionale

Vivere il proprio corpo senza la costante tensione verso gli standard imposti è una sfida che riguarda tutte, in misura diversa: non basta essere solo più indulgenti verso se stesse, ma riconoscere che, nella percezione del “dovere di essere belle”, c’entrano la misoginia e la sessualizzazione costante dei corpi. Quanto siamo davvero consapevoli di questi meccanismi? Riconoscerli è un primo passo per liberarsene partendo, in primis, da noi stesse.

Come sdradicare il dovere di essere belle

Uscire dall’obbligo della bellezza non è semplice e richiede un lavoro culturale molto complesso. Come spiega Blasi, “bisogna innanzitutto rendere indesiderabile il commento sull’aspetto fisico delle donne nell’esercizio della loro professione: esempio classico, la gallery dei look delle ministre alla presentazione di un governo, o delle donne presenti a un forum internazionale”.

Tenere il focus sull’avvenenza del corpo delle donne anche in eventi pubblici, infatti, aumenta la pressione sulle donne che vogliono intraprendere una carriera ad alta visibilità e le scoraggia

Per questo, quello che possiamo fare tutti – uomini e donne – è smettere di commentare negativamente l’aspetto altrui ed evitare apprezzamenti, battute o complimenti che mettano al centro il corpo. Ad esempio, attaccare le donne che fanno uso di botox è equivalente ad attaccare quelle che invece non lo fanno: come scrive Blasi,

il patriarcato si nutre della nostra ansia, della nostra insicurezza. Fare quello che ci va del nostro corpo, a qualsiasi età, è un gesto punk

Un’altra azione fondamentale per abbattere la bellezza a tutti i costi, è smettere di insegnarla e trasmetterla alle bambine come fosse un valore imprescindibile: “come sei brava” piuttosto che “come sei bella” può aiutare a comprendere già da piccole che la bellezza non è valore supremo.

Lo stesso cortocircuito che si crea con la magrezza, intesa e trasmessa come “virtù e valore”: come affermano le attiviste della body positivity, la positività rispetto al corpo, “troppo spesso, dietro la finta preoccupazione per la salute, si cela solo il disgusto per il corpo non conforme e un giudizio morale nei confronti delle persone sovrappeso, colpevoli di non curarsi, di mangiare troppo, di essere pigre e prive di disciplina. Tutto questo può finire, se siamo i primi a smetterla”.

La bellezza è un dovere e, oggi, l’atto eversivo è occupare spazio in pubblico in base a come ci si sente: anche da brutte.

In un mondo che ci chiede di farci piccole – continua Blasi – oggi sono brutta, domani sono bella, non ha importanza. Quello che importa è che sono qui, esisto, e non ho nessuna intenzione di sparire

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