Nel carcere di Padova arrivano le “stanze dell’amore” per garantire il diritto all’affettività dei detenuti

Se la sperimentazione andasse in porto, il carcere Due Palazzi di Padova sarebbe il primo istituto penitenziario in Italia a recepire, di fatto, la sentenza della Corte Costituzionale. Ma c'è chi non è d'accordo

Stanze private per condividere momenti di intimità all'interno del carcere, al riparo da sguardi e controllo. Il primo istituto penitenziario a recepire e, di fatto, applicare la storica sentenza della Corte Costituzionale relativa all’affettività dei detenuti, riconosciuta come un diritto, è il carcere Due Palazzi di Padova, che ha annunciato una sperimentazione finalizzata a ricavare spazi - le cosiddette “stanze dell’amore” - in cui le persone possono godere di privacy per coltivare i legami affettivi, familiari e anche sessuali con i partner. 

Cosa sono le "stanze dell'amore"

Il progetto prevede di installare in un'area verde e riparata del carcere dei piccoli prefabbricati in cui i detenuti possano trascorrere del tempo con il partner in totale privacy e riservatezza. Una sperimentazione legata a stretto giro alla sentenza con cui la Corte Costituzionale, a metà febbraio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, che prevede che la persona detenuta non possa avere colloqui con il coniuge – la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente – senza il controllo a vista del personale di custodia.

La Corte Costituzionale era stata chiamata a esprimersi sulla possibilità per i detenuti «di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia» a novembre. A chiedere l’intervento della Consulta Fabio Gianfilippi, giudice della Sorveglianza di Spoleto, nell’ordinanza con cui ha accolto l’istanza di un uomo che lamentava «le conseguenze negative che l’assenza di intimità con la compagna sta avendo sul suo rapporto di coppia a cui tiene particolarmente e al quale considera legato il proprio reinserimento sociale».

Una sentenza storica per i diritti civili e quelli dei detenuti, che trasforma appunto l’affettività e la sessualità in un diritto di cui devono poter godere anche le persone in regime di detenzione. E proprio sull’applicazione pratica della sentenza erano intervenute le associazioni, chiedendo che i direttori delle carceri adottassero misure concrete per consentire ai detenuti di esercitare un diritto inviolabile. La direzione del carcere di Padova ha dato il via libera, e la sperimentazione dovrebbe partire a breve, mentre le associazioni - con la onlus Ristretti Orizzonti in prima linea - si sono dette entusiaste all’idea che questa rivoluzione possa finalmente diventare realtà.

Le polemiche sulle stanze dell'amore

Il condizionale è d’obbligo, però, perché la sperimentazione sta incontrando parecchie resistenze. In primis quella del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, che ha sottolineato che «non esiste alcuna autorizzazione specifica riguardante la casa di reclusione Due Palazzi di Padova o altro istituto in Italia» sull’istituzione delle cosiddette stanze dell’amore. Ostellari ha riconosciuto l’importanza della sentenza della Corte Costituzionale, ma ha chiarito che sarà prima costituito un tavolo di lavoro per approfondire la questione, e che «ogni eventuale iniziativa verrà intrapresa dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria che coordinerà, dopo un'opportuna ricognizione delle strutture, tutti i provveditorati e, a caduta, i singoli penitenziari. Le carceri hanno bisogno di serietà, non di propaganda».

Alle proteste di Ostellari (e anche di diversi sindacati della polizia penitenziaria) ha risposto la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, e direttrice di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero. Che ha chiarito che parlando di diritto all’affettività e alla sessualità si parla, di fatto, di amore, «che si può finalmente declinare come vicinanza, intimità, carezze, una relazione che prevede anche il sesso. Poi sgombriamo il campo da quella parola, “guardoni” che alcuni sindacati di polizia penitenziaria hanno usato per dire che non vogliono questa riforma, perché si rifiutano di fare i guardoni di stato - prosegue Favero - I guardoni siete stati costretti a farli in questi anni in cui c’era il controllo visivo sui colloqui, e non si poteva consentire al detenuto di rubare né un bacio né una carezza, ma con i colloqui riservati non dovrete guardare niente, se non un controllo all’ingresso e all’uscita da quei colloqui. E quindi potrete fare il vostro lavoro, di cui abbiamo rispetto e considerazione, al meglio. E noi, volontariato e terzo settore, siamo davvero interessati ad approfondire il dialogo con la polizia penitenziaria, che nelle sezioni deve drammaticamente reggere il peso di una situazione detentiva sovraffollata e poco rispettosa dei diritti, anche di quelli di chi lì dentro lavora».

Il precedente a Bollate. Ma con controllo visivo

«Il capo del Dap, Giovanni Russo, ha dimostrato attenzione e sensibilità su questi temi, e alcuni direttori hanno iniziato, come gli chiede la sentenza, a muoversi in fretta per rispettare la Costituzione, ognuno deve fare la sua parte senza nessun indugio - conclude Favero - Al sottosegretario padovano Andrea Ostellari, con cui più volte il volontariato e il terzo settore si sono confrontati, chiediamo di continuare questo confronto proprio sul tema dell’amore in carcere: siamo infatti convinti che sia una cosa bella e importante se a Padova si inaugureranno presto i primi colloqui riservati, intimi, d’amore tra, come dice la Corte, “la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata”».

L’esperienza di Padova, se declinata nel modo in cui previsto da direzione carceraria e associazioni, sarebbe in effetti la prima e farebbe da apripista. C’è però un altro carcere in cui ai detenuti è concesso restare soli con familiari e congiunti: nel carcere di Bollate, nel 2018, è partito il progetto “Traccia di Libertà”, uno spazio destinato ad accogliere gli incontri dei detenuti con i loro familiari, in particolare con i figli piccoli. Sempre, però, con controllo visivo da parte della polizia penitenziaria.

Riproduzione riservata