CareSeekers, il documentario che investiga sul significato di Cura
Una storia che ne racchiude quattro e al cui interno coesistono diversi personaggi ed esperienze. Il filo rosso che unisce i vari racconti e le diverse voci è il tema della cura in relazione all’anzianità e alla malattia. Chi si prende cura e cosa comporta prendersi cura?
Il film, infatti, è diviso in quattro capitoli: si apre con Vanni e Natalia, due anziani che hanno fatto da caregiver alle loro madri e ora si interrogano sulla vecchiaia che avanza e su chi si prenderà cura di loro. Vasilica è una donna rumena che fa la badante a una signora con demenza senile. C’è poi il capitolo sulle case di cura dove viene raccontata la vita delle OSS a Villa Antonietta, quasi tutte giovani donne straniere. Infine si ragiona in modo quasi utopico: Sandra e le sue amiche hanno deciso di provare a vivere insieme gli anni della vecchiaia in una forma comunitaria in un piccolo paese della Sardegna.
Alla base vi è il desiderio di trovare una strada di cura alternativa
Il tema del viaggio fa da cornice
I quattro racconti di cura sono uniti da un viaggio in macchina per la pianura padana. Una cartina, strade, vicoli e varie soste scandiscono e intervallano i vari capitoli. A ogni fermata sale in macchina la protagonista della storia raccontata. Si forma così un gruppo eterogeneo che attraverso l’espediente narrativo del viaggio si interroga ed è alla ricerca di una risposta alla domanda che anima l’intero film: “Quale cura ci spetta?”. Ma non si arriva a una meta.
«La cura è un luogo a cui non si arriva. A ogni episodio uno dei personaggi sale sulla macchina un po' come a dire: siamo in una ricerca che è comune e se ci mettessimo tutti insieme in questa ricerca forse staremmo un po' meno male. La strategia da seguire è non contrapporre i problemi ma cercare di metterli assieme - continua Sala - fare delle battaglie sul lavoro e sulla cura e cercare di unirle potrebbe essere una buona soluzione».
Un viaggio che non vuole essere solo metaforico, infatti c’è anche un viaggio reale, quello che ha portato la regista Teresa Sala e l’autrice Tiziana Francesca Vaccaro in giro per l’Italia per raccogliere le testimonianze attraverso incontri e laboratori teatrali e adesso attraverso le proiezioni. «Portare in giro il film continua a essere fonte di grandi stimoli perché ci si confronta con persone che hanno avuto o che hanno bisogno di cura e che hanno fatto o fanno lavoro di cura», spiega Sala.
La metafora del viaggio serve anche a tenere insieme le varie storie
«Vanni e Natalia prima della pandemia facevano proprio questo: prendevano una macchina, ogni tanto andavano in giro per il nord e centro Italia a mappare i progetti sulla cura e mettersi in contatto», racconta Sala.
Che cos’è la “Sindrome Italia”
Sono soprattutto le donne migranti a occuparsi del lavoro di cura delle persone anziane. Nel corso degli anni si è assistito con sempre maggiore frequenza, oltre alla femminilizzazione di questo mestiere, anche alla quasi totale presenza di donne straniere, provenienti soprattutto dall’est Europa, nei lavori di cura e assistenza.
La Sindrome Italia è un insieme di sintomi diagnosticati per la prima volta da due psichiatri ucraini nel 2005
Una sintomatologia molto varia: depressione, istinti suicidi, schizofrenia. «La cosa che avevano in comune tutte queste donne era che avevano fatto il lavoro di cura in Italia», precisa Sala.
Il senso di alienazione e le difficoltà che affrontano queste donne emerge chiaramente dal secondo capitolo del film, dal titolo “Come si fa a mettere una distanza”. Come racconta Vasilica nel film: «Stando chiusa rinunci ai tuoi desideri, non è una vita… quando vedo la mia assistita che sta male sto male anche io - poi aggiunge - Il lavoro di badante proprio non deve esistere, non così come si fa adesso».
Non puoi dare la vita per una persona che di vita ne ha già vissuta tanta. Per accorciare la vita e far star male una persona giovane, una mamma, una donna che è una persona che ha una vita da vivere
L’autocoscienza di gruppo è un passo fondamentale
Nel film a fare da sfondo - ma non di secondaria importanza - è il gruppo di autocoscienza che discutendo di cura, malattia e vecchiaia ragiona - a partire dalle esperienze personali - sui servizi inesistenti, sulle difficoltà quotidiane e su possibili alternative. Una delle donne che partecipano a questo gruppo esordisce dicendo: «Vi ricordate quando eravamo giovani spose cosa ha fatto il consultorio per la contraccezione? Quando si è cominciato a parlare della menopausa e il consultorio ci ha anche insegnato tante cose a riguardo e per la vecchiaia? Siamo abbandonati a livello sociale». Un’altra voce le fa eco:
Hanno lasciato il problema dell'anzianità come qualcosa da gestire a seconda delle disponibilità finanziarie
Servono servizi su misura in base alle esigenze delle persone e per farlo serve una cultura della cura che non escluda le persone anziane. In questo contesto l’housing sociale diventa una soluzione di grande impatto, come testimonia il caso riportato nel film:
Quando sei sola devi rispondere agli stimoli e alle cose da risolvere da sola, quando sei una comunità arrivi tu nelle cose, ma dove tu per il momento non puoi arrivare arriva un altro. Questo è cura
Il lavoro di cura, un lavoro sommerso
Se dovesse riassumere il film Teresa Sala userebbe cinque parole: cura, anzianità, bellezza, desiderio e lavoro. Soffermandosi sulla “cura”, che è il filo conduttore del film, la regista fa anche notare che «la parola cura è esplosa nel dibattito pubblico con la pandemia. È stata molto usata, ma svuotata». L’esigenza e l’urgenza di parlare di cura alimenta il lavoro di Sala e Vaccaro: «Secondo noi non si è andato molto a fondo su che cos'è la cura e quanto era già complicato, prima del Covid, il mondo della cura: mancanza di diritti e sfruttamento sono condizioni molto diffuse».
Secondo il report “Gli anziani e il lavoro di cura” - dello sportello lavoro dell’associazione animazione interculturale (ASAI) - le persone che lavorano in questo settore fanno parte di un “welfare nascosto” o "esercito silenzioso" costituito da circa 8 milioni di familiari responsabili dell’assistenza o caregiver che si auto-organizzano per far fronte ai bisogni dei propri cari non più autonomi, a cui si affianca quasi 1.000.000 di assistenti familiari tra regolari e non».
La cura come progetto collettivo
“CareSeekers” fa emergere anche il conflitto: quello odierno è un sistema di cura che ha come obiettivo il profitto e non il benessere delle persone. Ma affinchè la cura diventi presa in carico complessiva della persona, bisogna cambiare punto di vista: «la cura è un processo: bisogna che anche l'ambiente in cui stiamo venga curato, che anche le altre persone coinvolte nel lavoro di cura siano curate. Bisognerebbe pensare la cura come cerchi concentrici», afferma la regista.
Per definire cos’è la cura Sala porta come esempio le parole di una persona che ha partecipato a uno degli incontri: «Curare significa aderire a un progetto. io non decido come curo te, se decido di curarti accetto di entrare in quello di cui tu hai bisogno, nei tuoi tempi, nei tuoi modi, nelle necessità e nei desideri che hai e che magari non corrispondono a quello che io avevo in testa di fare».
In questo progetto, bisogna parlare di cura anche a livello intergenerazionale. Questo concetto emerge da un aneddoto raccontato da Sala: «Durante la pandemia la casa di cura Villa Antonietta (ndr la casa di cura in cui è ambientato un capitolo del film) è stata chiusa a visite e persone esterne. Le persone che lavoravano lì dentro non tornavano a casa per paura di contagi e avevano un albergo dove qualcuna si era portata anche le figlie. Si è creata così una sorta di micro comunità».
Bisogna pensare a una comunità che collettivizza le proprie risorse, permette lo scambio e l’integrazione. Sala aggiunge anche un tassello in più a questa riflessione: «Secondo me oltre che intergenerazionale diventa fondamentale anche una prospettiva interculturale: c'è un Paese che invecchia e che in realtà ha una parte di popolazione molto giovane che è tendenzialmente migrante, e proprio su questo si dovrebbero creare delle opportunità e alleanze, non degli scontri».