Diritti delle donne: per cosa lotteremo nel 2022?
Di empowerment femminile, nel 2021, si è parlato e discusso: parola chiave durante il G20, linea di azione del PNRR e obiettivo conclamato di politiche europee e nazionali. Ma di cosa si tratta esattamente e, soprattutto, come si declina nella vita quotidiana delle donne? Parlare di empowerment significa tenere insieme dimensioni diverse e complementari: identità e autostima, capacità di autodeterminazione, accesso paritario a risorse e opportunità, fiducia nelle proprie capacità, audacia nelle rivendicazioni. È così che il “personale” diventa "politico" e “l’individuale” si fa “pubblico”. I nostri desideri possono determinare la direzione del cambiamento sociale per creare un sistema più giusto ed inclusivo: ecco quello per cui vale la pena lottare.
Abbattere il soffitto di cristallo nell'accesso al potere delle donne
Una donna al capo del governo fa notizia. Una donna a capo dello Stato, è “la donna a caso”: non ha un nome e cognome, la sua connotazione esclusiva è quella di genere e viene chiamata in causa in quanto donna, ergendosi automaticamente a simbolo. Tra le sfide del nuovo anno, emerge prepotente la necessità di ribaltare questa prospettiva e riconoscere che l’accesso delle donne alle posizioni di potere rimane un nodo problematico. Per affrontarlo, le quote di genere – adottate nei consigli di amministrazione o nelle sedi istituzionali allo scopo di introdurre obbligatoriamente una certa percentuale di persone di un dato genere - sono necessarie ma non bastano. Quel che serve è un cambiamento culturale e radicale.
Mai come negli ultimi anni la politica è stata chiamata a dimostrare di essere all’altezza di affrontare la sfida della complessità. Mai come negli ultimi anni la competenza delle donne e degli uomini alla guida delle istituzioni è stata fondamentale per la salute e la vita delle persone: tuttavia, lasciare campo libero alle donne solo quando si presentano difficoltà da risolvere, non è una gentile concessione né un progresso in fatto di parità. Il fenomeno ha un nome preciso. Si chiama “glass cliff”, scogliera di vetro, ed è stato analizzato già nel 2005 da due professori inglesi, Michelle K. Ryan e Alexander Haslam, dopo anni di ricerche che dimostrassero questa curiosa correlazione: in contesti precari e con alta percentuale di fallimento, viene scelta una donna per assumere il ruolo di leader, con la speranza che possa risollevare situazioni dove nessun uomo è riuscito.
Nel contesto dell'accesso alle posizioni di potere, spesso si verifica il “glass cliff” (scogliera di vetro): in contesti con alta percentuale di fallimento, viene scelta una donna per assumere il ruolo di leader
In situazioni ordinarie, invece, i numeri parlano chiaro: in Italia, in 75 anni di storia della Repubblica, di 4.864 presidenti, ministri e sottosegretari che hanno giurato al Colle appena 319 sono state donne. Il 6,56% del totale. Nell’attuale consiglio dei ministri, dei 23 ministri nominati solo 8 sono donne: Luciana Lamorgese agli Interni; Marta Cartabia alla Giustizia; Cristina Messa all'Università; Mara Carfagna al Sud e alla Coesione e Maria Stella Gelmini alle Autonomie.
Non solo una questione di numero, ma di competenze: secondo l'ISTAT, la percentuale di donne laureate supera quella degli uomini mentre, secondo Almalaurea, le studentesse registrano risultati più brillanti lungo il percorso formativo. Difficile credere che le donne non arrivino in Parlamento o nei Cda per mancanza di meriti. Sebbene avere tante donne in politica non vuol dire per forza più parità di genere, il numero delle donne in politica rimane un indicatore importante: non è un caso che i paesi che non prevedono donne in politica siano anche quelli che garantiscono loro meno diritti.
il numero delle donne in politica rimane un indicatore importante: non è un caso che i paesi che non prevedono donne in politica siano anche quelli che garantiscono loro meno diritti
Più prevenzione e contrasto alla violenza di genere
Agire in modo efficace nella lotta alla violenza di genere significa concentrarsi non solo sulla sua gestione, ma anche sulla sua prevenzione. La maggior parte delle iniziative politiche per gestire il problema, invece, fanno riferimento a una logica emergenziale che troppo spesso non agevola la riconquista dell’autonomia, anche economica, delle donne: fondamentale per lasciarsi definitivamente alle spalle la violenza subita.
Il Reddito di libertà, ad esempio, è una misura economica introdotta con un decreto a dicembre del 2020 e rifinanziata nella Legge di Bilancio 2022, che punta a sostenere le donne seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali con un massimo di 400 euro mensili per 12 mesi. Un’iniziativa che sarebbe pure un buon tentativo, se non fosse che i fondi stanziati risultano troppo pochi: al Reddito di libertà possono accedere massimo 625 donne in tutta Italia, rispetto alle 50mila (circa) accolte ogni anno nei 302 centri antiviolenza del Paese. Ci vorrebbero ulteriori fondi per far sì che anche solo un quinto delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza possa accedere al contributo.
Con una disoccupazione femminile al 51%, molte donne non dispongono di redditi propri ma dipendono da mariti e compagni. Il numero dei femminicidi è rimasto costante negli anni ed è aumentato negli ultimi due (nel 2021, una donna è stata uccisa ogni 72 ore): fatti lampanti che confermano la necessità di provvedimenti strutturali, non solo emergenziali.
Incrementare l’occupazione femminile: liberare il tempo delle donne
La crisi da Covid-19 è anche una crisi di genere: lo spiega bene l’espressione "She-Cession", coniata per descrivere in modo puntuale la recessione occupazionale che ha colpito più le donne rispetto agli uomini. In Italia, secondo i dati Istat, il 2020 ha registrato 470mila occupate in meno rispetto al secondo trimestre del 2019. Questa situazione riflette il fatto che le donne sono sovra rappresentate nei settori che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi, come l'assistenza all'infanzia, il commercio e il turismo. Inoltre, su di loro ricade quasi interamente il carico del lavoro di cura: dalle ore dedicate al lavoro domestico in senso stretto (cucinare, lavare, fare la spesa, stirare, etc.) a quelle impiegate per la cura dei figli e delle figlie, di diverse età.
Per 3 mamme su 4, intervistate da Save The Children nel report “Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2020”, il carico di lavoro domestico è aumentato. Mentre l'economia comincia a riaprirsi, molte madri devono rinunciare al loro lavoro, soprattutto a quello che non può essere svolto a distanza. Il 2022 può e deve liberare il tempo delle donne, ridefinendo una nuova divisione del lavoro di cura e sanando le disuguaglianze nell’accesso al mondo del lavoro.
Più libertà di decidere del proprio corpo: la maternità non è un dovere
La maternità non dovrebbe essere vista come un destino prestabilito o un dovere: una donna può scegliere liberamente di diventare madre e, con la stessa libertà, decidere di non farlo. Diverse voci di studiose, ricercatrici e filosofe femministe si sono battute negli anni per testimoniare come non esista alcun naturale “istinto materno” che giustifichi l’obbligo socio-culturale di diventare madri. Eppure, nonostante la Legge 194 garantisca il diritto all’aborto da più di quarant’anni, per alcune donne ancora oggi avere accesso agli interventi di interruzione volontaria di gravidanza è difficile.
Lo confermano i dati dell’ultima Relazione del ministro della Salute sull’attuazione della legge 194/1978, aggiornata al 2018, per rendersene conto: il 69% dei ginecologi italiani è obiettore di coscienza, cioè si rifiuta di praticare le interruzioni volontarie di gravidanza. In cinque regioni e nella provincia autonoma di Bolzano la percentuale arriva o supera l’80%. Il Molise rappresenta il caso limite: a seguito del pensionamento di Michele Mariano, medico abortista che ha già rinviato la pensione due volte per difficoltà a trovare un sostituto, dal primo giorno del 2022 la dottoressa Giovanna Gerardi è l’unica a gestire le interruzioni volontarie di gravidanza.
La Legge 194 del 1978 afferma che “che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza”: i numeri degli obiettori, in Italia, invece, si muovono in senso opposto al principio di universalità dell’assistenza ed eguaglianza. Lo stesso su cui, proprio nel 1978, fu fondato il Servizio sanitario nazionale.
Usare la rabbia a nostro vantaggio
Se mai c’è stato un tempo per non autoimporci il silenzio, per incanalare la nostra rabbia in direzioni e scelte benefiche, quel tempo è adesso
Soraya Chemaly
Come scrive Soraya Chemaly in “La rabbia ti fa bella. Il potere della rabbia femminile”, il nuovo anno può essere occasione per utilizzare la rabbia in senso attivo e propositivo, incanalando un cambiamento concreto. La rabbia è un’emozione potente: usarla per rimettere al centro i nostri desideri è un’opportunità.