Diritto alla disconnessione e dipendenza dal lavoro: perché è sempre più importante parlarne
“Great gloom”, “Great Resignation”, “Quiet Quitting”: neologismi che negli ultimi quattro anni hanno preso sempre più piede quando di parla di lavoro, e che riflettono un inesorabile cambiamento di prospettive, valori e desideri tra le nuove generazioni quando si tratta di scegliere come, dove e soprattutto quanto lavorare.
Come testimoniato da diversi studi sul tema, infatti, la percentuale di lavoratori che si dichiara insoddisfatta o infelice verso il proprio lavoro è in costante aumento, e il fattore economico centra relativamente. I lavorato di oggi, in primis i più giovani, preferiscono infatti avere un buon bilanciamento tra attività professionale e vita privata e avere abbastanza tempo da dedicare alle proprie passioni, ai propri hobby e ai propri affetti. Ed è qui che entrano in gioco altri due aspetti molto importanti per dipingere un quadro dei lavoratori di oggi: il diritto alla disconnessione e la dipendenza da lavoro.
Che cos’è il diritto alla disconnessione
Il diritto di disconnessione è, in estrema sintesi, il diritto dei dipendenti di disconnettersi dal lavoro e di non ricevere o rispondere a mail, telefonate o messaggi al di fuori delll’orario di lavoro. È diventato particolarmente rilevante in concomitanza con la pandemia di Covid-19, quando i concetti di smart working, lavoro agile e lavoro da remoto sono diventati fondamentali. La stragrande maggioranza dei lavoratori si è infatti ritrovata a svolgere le attività quotidiane da casa, tramite strumenti digitali, ed è diventato indispensabile regolare il più possibile orari e tempistiche per dare un limite alle ore trascorse davanti a un computer, un tablet o uno smartphone.
Oggi molte aziende hanno mantenuto un modalità di lavoro ibrida (anche in Italia la resistenza è tanta), ma il nodo del diritto alla disconnessione resta quanto mai attuale. Il rischio è, infatti, che senza porre limiti, in un’epoca iper digitalizzata come la nostra i confini tra orario di lavoro e vita privata si confondano e i lavoratori si ritrovino a leggere mail a tarda notte o a ricevere chiamate in orari riservati al riposo e alla vita personale. E dove non arriva il buon senso del datore di lavoro arriva la legge.
A oggi infatti il diritto alla disconnessione è una vera e propria legge in molti Paesi dell’Unione Europea
La Francia è stata pioniera, nel 2016, grazie alla cosiddetta “Code du Travail”, che ha introdotto l’obbligo per le aziende di almeno 50 dipendenti di regolamentare il tempo libero dei dipendenti e il divieto di inviare comunicazioni fuori dall’orario di lavoro. L’Italia, sorprendentemente, è arrivata poco dopo. Nel 2017 la Legge sul Lavoro Agile ha stabilito che lavoratore e datore di lavoro possono accordarsi sull’utilizzo di strumentazioni tecnologiche, a patto che l’accordo individui “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione”.
L’obiettivo non è soltanto regolamentare l’orario lavorativo ma anche tutelare la salute del lavoratore. Che rischia di andare incontro a burn-out, ansia e frustrazione quando i confini tra lavoro, vita privata e tempo libero non vengono rispettati grazie alla tecnologia. Ed è qui che si affaccia il secondo concetto anticipato, ovvero la dipendenza da lavoro. Particolarmente importante quando si parla delle nuove generazioni di lavoratori, nativi digitali e costantemente connessi.
Workaholism, la dipendenza da lavoro
Il termine “workaholism” è stato coniato nel 1971 dallo psicologo statunitense Wayne Oates, che lo ha usato per indicare quel fenomeno che caratterizza i lavoratori che non staccano mai. I workaholic, appunto, persone che tendono a lavorare in modo eccessivo e compulsivo e che hanno sviluppato una vera e propria ossessione per il lavoro.
Si tratta di una dipendenza difficile da inquadrare come tale e soprattutto da interpretare in modo negativo, perché nella società attuale è visto tradizionalmente di buon occhio chi dedica al lavoro più tempo di quanto previsto da contratto impegnandosi a raggiungere e superare, se possibile, gli obiettivi prestabiliti.
La differenza tra ambizione, dedizione e dipendenza però è sottile, anche se gli effetti sono più che tangibili
I rischi della dipendenza da lavoro
I workaholic infatti sperimentano ripercussioni anche molto pesanti sulla loro vita privata, finendo per togliere tempo ad amici, affetti e a loro stessi per dedicare tutte le energie e il tempo al lavoro. Diversi studi mostrano che le persone workaholic tendono a sentirsi male, a provare emozioni negative come ostilità, ansia e senso di colpa, quando non possono lavorare quanto vorrebbero, altri suggeriscono che i workaholic provino benessere e soddisfazione durante la giornata lavorativa, mentre altri ancora mostrano che queste emozioni positive lasciano presto il posto a un pervasivo stato disforico fatto di irritazione e depressione. A livello sociale e psicologico, dunque, la dipendenza da lavoro può creare molti danni.
VEDI ANCHE LifestyleCome gestire un partner workaholicLo testimonia anche uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Occupational Health Psychology, il cui primo autore è Luca Menghini, assegnista di ricerca al Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell'Università di Trento. Lo studio è stato coordinato da Cristian Balducci, professore del Dipartimento di Scienze per la qualità della vita, Campus di Rimini, Università di Bologna.
Secondo questo studio il tono dell'umore dei workaholic è mediamente peggiore rispetto alle altre persone, anche quando stanno facendo ciò che più desiderano: lavorare. Un fenomeno che accosta la sindrome di dipendenza dal lavoro (workaholism) ad altre dipendenze, come quella per il gioco d'azzardo o l'alcolismo.
«L'umore più negativo delle persone workaholic potrebbe segnalare livelli più elevati di stress sperimentati su base quotidiana e quindi spiegare il maggiore rischio per queste persone di sviluppare burn-out e problematiche cardiovascolari - spiega Balducci - Inoltre, considerato che il workaholic tende frequentemente a ricoprire incarichi di responsabilità, il suo umore negativo potrebbe facilmente intaccare quello di colleghi e collaboratori: un pericolo che le organizzazioni dovrebbero tenere in seria considerazione, intervenendo per disincentivare i comportamenti che portano al workaholism».
Le donne sono più vulnerabili
Un altro risultato significativo emerso dallo studio è che la relazione tra dipendenza da lavoro e basso tono dell’umore è più marcata nelle donne, elemento che segnala una loro maggiore vulnerabilità donne al workaholism. Gli studiosi suggeriscono che questo fenomeno potrebbe dipendere da un maggior conflitto di ruolo sperimentato dalle donne workaholic, prese tra la tendenza interna a investire eccessivamente nel lavoro e le pressioni esterne che derivano da aspettative di genere ancora molto radicate nella nostra cultura.
«Le organizzazioni devono mandare segnali chiari ai lavoratori su questo tema, evitando di incoraggiare un clima in cui lavorare anche fuori dall’orario lavorativo e nei fine settimana sia considerato la normale - conclude Balducci - Al contrario, è necessario promuovere un ambiente che disincentivi un investimento eccessivo e disfunzionale nel lavoro, promuovendo politiche di disconnessione, specifiche attività di formazione e interventi di counseling».