Il Festival di Sanremo e la rappresentazione di genere: non sono solo canzonette
L’opposto del machismo, il contrario esatto di quel tipo di mascolinità tossica che non tollera le emozioni. Le voci dei giovani vincitori portano a casa la vittoria e un premio inedito, non previsto ma sicuramente riconosciuto: offrire una rappresentazione di genere nuova, scardinata dagli stereotipi e dalla tradizione.
Sul palco cantano l’amore, si guardano negli occhi e non hanno paura di toccarsi mettendo in scena semplicemente se stessi
Lo stesso hanno fatto altre grandi personalità in gara: la prorompente presenza scenica de La Rappresentante di Lista che mescola in look e musica il concetto di genere; la prontezza con cui la maestra Francesca Michielin cede il boquet al primo violino dell’orchestra (un uomo); il gesto femminista di Emma Marrone durante la performance che richiama le prime manifestazioni di piazza; la fluidità di genere che esplode con la performance dei Måneskin, le scuse di Achille Lauro a Loredana Berté:
che strano uomo sono io, incapace di chiedere scusa perché confonde il perdono con la vergogna
Anche quest’anno, in quanto a rappresentazione ed espressione di genere, il Festival di Sanremo ha segnato un punto di vista interessante attraverso cui guardare.
Il diritto alla leggerezza delle donne
Per anni, l’Ariston ha rappresentato il palco privilegiato attraverso cui donne diverse hanno preso e rivendicato lo spazio pubblico e mediatico, usando la propria voce e il proprio corpo per lanciare un messaggio preciso e battersi per una rappresentazione diversa: ci siamo, vogliamo fare a modo nostro e sappiamo farlo.
Sabrina Ferilli - co-conduttrice nel corso dell’ultima serata - lo ha detto bene:
perché la presenza delle donne dev’essere sempre legata a un problema?
Il diritto alla leggerezza che l’attrice riporta sotto i riflettori non può essere esclusività maschile e, nel nominarlo chiaramente, offre una rappresentazione di genere inedita che rimette le donne al centro e le spoglia dalla pressione costante di dover dimostrare sempre di essere le più brave, le più belle, le più brillanti. A Ferilli non è importato quanto i capelli fossero in ordine o quanto le scale fossero ripide. Diretta e sincera, ha sottolineato come:
sono io, il mio monologo. La mia storia, le mie scelte, i miei affetti, la mia professione, la tenacia con cui mi sono presa quello che mi dovevo prendere sono le cose migliori che mi possono accompagnare su questo palco e che possono accompagnare ogni donna, ovunque, nella nostra storia
Posizionarsi nel modo più onesto nella società, cedendo il microfono alle minoranze e senza mettersi in prima linea:
potevo parlare di femminismo, di body positivity, di mansplaining, di schwa, che sono tutti temi molto importanti. Ma di queste cose dovete far parlare le persone che si sporcano le mani, che studiano, che sanno di cosa stanno parlando
Sabrina Ferilli non vuole rappresentare nient’altro che se stessa ed è proprio la sua sincerità il messaggio più potente che ribalta qualsiasi stereotipo: essere noi stesse, ovunque e comunque.
Ha provato a farlo anche Lorena Cesarini, co-conduttrice della seconda puntata, portando se stessa sul palco durante la seconda serata e aprendola con un monologo sul razzismo che la riguarda direttamente:
a 34 anni scopro che non è vero che sono una ragazza italiana come tante. Io resto nera
Cesarini riporta gli insulti ricevuti dopo l’annuncio della sua presenza alla kermesse canora – “evidentemente per alcuni il mio colore della pelle è un problema”- e chiude il monologo con la lettura di alcuni passi del libro Il razzismo spiegato a mia figlia dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun.
Il corpo nero è ancora considerato un corpo estraneo e la sua marginalizzazione si lega anche alle questioni di genere e classe sociale: tuttavia, come hanno fatto notare molti attivisti della comunità nera italiana, il monologo di Lorena Cesarini è stata l’ennesima occasione in cui una persona viene raccontata come vittima, anche inconsapevole, di una società in cui il razzismo si manifesta nella sua sistematicità.
Così, la persona nera, è costretta a giustificare la sua presenza in quanto vittima e non per la sua storia o per le sue capacità
Nonostante l’importanza della tematica, come ha raccontato la stessa Cesarini, il suo percorso professionale vanta una laurea in Storia Contemporanea e un importante successo come attrice: eppure, sul palco dell’Ariston, la sua presenza è stata quasi esclusivamente correlata alla sua identità, minimizzandone qualunque altra capacità professionale.
Il diritto alla leggerezza, per essere tale, deve valere per tutte
Il potere di non lasciarsi definire
Non solo leggerezza, ma anche libertà: un concetto che, nelle definizioni, raramente ci sta comodo. Lo ha dimostrato con la sua presenza Drusilla Foer, co-conduttrice nella terza serata. “Il genere è performativo” scriveva già nel 1988 la filosofa Judith Butler, paragonando il genere a
un atto di spettacolo teatrale, dove la sceneggiatura sopravvive agli attori che ne fanno uso, ma è priva di vita finché non viene messa in scena
In questo senso, Foer ha incarnato il principio e lo ha ribaltato: una performance è composta da gesti, ma si nutre anche di chi ti guarda e ti legittima.
Per questo, il suo vestirsi da Zorro “per tranquillizzare tutti quelli che avevano paura di un uomo en travesti, sicché mi sono travestita” e le battute di rimando al suo corpo e alle “sorprese che potrebbe riservare” hanno un effetto prorompente ed efficace: Foer non deride i travestiti, ride con e per i travestiti.
Non ha bisogno di essere considerata una donna per sentirsi tale perché, anche se è un personaggio creato, vive di vita propria. Per questo, di Drusilla Foer si parla come di Drusilla Foer: è una persona che esiste
La sua unicità è questa e, dal palco dell’Ariston con il suo monologo ha invitato tutti e tutte a comprendere e innalzare la propria:
Non è facile entrare in contatto con la propria unicità ma un modo lo avrei: si prendono per mano tutte le cose che ci abitano e si portano in alto, si sollevano insieme a noi, nella purezza dell’aria, in un grande abbraccio innamorato e gridiamo: che bellezza tutte queste cose sono io
La sottile differenza tra “Ridere con” e “ridere di"
Se Drusilla Foer prende il “gender panic” sollevato intorno alla sua presenza ribaltando lo stereotipo a suo vantaggio con stile ed eleganza, la gag di Checco Zalone - super opsite della seconda serata – di stereotipi di genere ne ricalca diversi e bersagliano la comunità LGBTQIA+ (che ha riso ben poco).
La favola raccontata da Zalone è una parodia di Cenerentola e ha per protagonista Oreste, una donna trans di origini brasiliane che viene invitata al grande ballo a palazzo e di cui il principe si innamora perdutamente, nonostante l'opposizione del padre omofobo. La storia si risolve quando si scopre che Oreste si prostituisce e il padre è in realtà un cliente affezionato. Nella canzone successiva, cantata da Zalone nei panni di Oreste, racconta della sua clientela di professori e padri di famiglia e indugia sulla promiscuità.
Il discorso di Zalone ricalca vecchi stereotipi, portandoli all’estremo, ed è problematico in troppi aspetti
Oltre ad associare automaticamente le persone trans al sex work, utilizza un nome maschile per una persona che ha effettuato la transizione verso il nuovo sesso, estremizza i modi in cui le persone trans hanno rapporti sessuali, accusa i transfobici di essere ipocriti, ovvero di discriminare le persone trans ma poi frequentare le prostitute trans per usufruire dei loro servizi.
Come se la transfobia fosse sbagliata solo se legata all'ipocrisia. Una comicità che ha dichiaratamente lo scopo di farsi gioco dello status quo dovrebbe seguire una logica “punch up” per cui l’umorismo viene fatto da persone che con le loro battute scelgono di colpire chi, secondo questi stessi paradigmi, è sopra di loro o al loro pari.
Zalone, in questa occasione, non ha giocato alla pari e se gli stereotipi di cui avremmo dovuto ridere sono ancora plausibili, allora abbiamo un problema
Lasciare il microfono
“Ridere con” e non solo. Serve anche “parlare con”: anche e soprattutto quando il tema tocca la diversità e la sua rappresentazione.
Nel corso della quarta serata, l’attrice e co-conduttrice Maria Chiara Giannetta racconta la sua esperienza durante la preparazione fatta per interpretare il personaggio di Blanca, una stagista cieca assunta in un commissariato.
Durante il suo intervento, Giannetta è affiancata dai quattro consulenti ciechi che l’hanno aiutata a interpretare il ruolo ma di cui vengono riferiti solo i nomi: Michela, Maria, Marco e Sara.
Se l’attrice racconta con commozione e cura i particolari della sua esperienza e ciò che ha imparato, ai consulenti viene dato solo uno spazio comunicativo stringato e riservato alla fine: la disabilità viene rappresentata esclusivamente in ottica ispirazionale.
Come per la rappresentazione di genere, anche nella rappresentazione della diversità non “cedere il microfono” non aiuta a scardinare i numerosi stereotipi che resistono: a dimostrazione che, l’inclusività, è una battaglia trasversale
Contare, non solo esserci
La 72esima edizione del Festival si è conclusa e lascia anche quest’anno spunti interessanti su cui riflettere.
Sul palco, come nel paese reale, le donne ci sono state ma hanno contato poco?
Amadeus, ad affiancarlo, ha scelto Fiorello: le donne - come evidenziato già nella prima conferenza stampa del Festival – sono “figure femminili” e non “vallette” perché quest’ultima espressione non restitutirebbe loro il giusto significato.
Eppure, indimenticabili vallette come Milly Carlucci, Veronica Pivetti, Ilary Blasi e la stessa Sabrina Ferilli, hanno fatto dell’Ariston il loro trampolino di lancio.
se alla co-conduzione si preferiscono brevi segmenti o gag in onda a serata inoltrata, il problema non è la definizione di valletta
Ornella Muti, “figura femminile” nella prima serata, è una professionista che ha costruito una solida carriera come attrice e come artista. Eppure ha preso parola solo in tardo orario e per menzionare i “grandi uomini” con cui ha lavorato.
Non mettere al centro il suo talento e utilizzarlo unicamente per lanciare due Big e aiutare Amadeus a infilarsi la giacca per andare a prendere i Måneskin, è stata un’occasione sprecata e non valorizza il talento che l'ha fatta conoscere in Italia e nel mondo
A differenza di altre colleghe intervenute negli anni a Sanremo, come Matilda De Angelis lo scorso anno, Muti ha scelto una presenzialità priva di guizzi. E, ha aggiunto Amadeus, fare la co-conduttrice “non significa necessariamente stare sul palco sempre e in contemporanea”, ma anche soltanto “rendere la serata speciale con la propria presenza”.
Ognuna è diversa e porta con sé la sua storia, ma il palco dell’Ariston avrebbe meritato più di una parola buona per “alcuni degli attori più amati del mondo”: quando parleranno le donne e smetteremo di parlare di donne? Probabilmente, non basterà una canzone