Fondazione CondiVivere: “disabilità non significa solo limiti”. La storia di Alberto
Fondata nel 2011 a Milano, la Fondazione CondiVivere è nata dall’idea di un gruppo di familiari di persone disabili spinto dal desiderio di porre le basi per il “dopo di noi” attraverso un progetto pedagogico ispirato alle ricerche del professor Nicola Cuomo, che durante la sua vita si è dedicato a sviluppare una metodologia denominata Emozione di conoscere e modello Empatico-relazionale, centrata sulla possibilità di conoscere, attivarsi, apprendere e crescere sviluppando talenti, attitudini e desideri. Un metodo che supera l’approccio puramente assistenzialistico – dove il disabile viene aiutato ma non attivamente stimolato a fare, creare – e che intende la persona non nei suoi limiti, ma come parte integrante della società, libera come tutti e dotata di potenzialità, desideri, passioni, risorse da stimolare nel modo giusto.
Proprio ispirata da questo approccio, la Fondazione – che lavora in sinergia con Cooperativa Sì, si può fare e sotto la supervisione continua del Comitato scientifico (Associazione AEMOCON) - sostiene le famiglie nella costruzione del progetto di vita indipendente del proprio figlio attraverso l’inserimento della persona disabile in contesti sociali e lavorativi come il negozio-laboratorio pedagogico di prodotti biologici di alta qualità aperto dalla Fondazione, Il Bottegaio Nostrano in zona Dergano, e attraverso l’organizzazione di luoghi di abitazione e di tempo libero inclusivi. Il tutto proponendo un nuovo modo di prendersi cura della persona con deficit, pensandola come parte della società di tutti, dotata della stessa libertà e diritti e capace di essere portatrice di risorse.
Qui di seguito trovate la storia di Alberto Passaniti, uno dei ragazzi della Fondazione, raccontata dalla mamma Teresa Bellini.
La storia di Alberto inizia quasi trent’anni fa, in seguito a una gravidanza nella norma.
Dopo circa un anno dalla sua nascita abbiamo capito però che c’era qualcosa che non andava. Abbiamo iniziato a consultare vari specialisti per avere una diagnosi, e per molti anni l’unica che ci veniva fornita era quella di “disturbo pervasivo dello sviluppo”
Una diagnosi molto generica, che non inquadrava la complessità di Alberto. Alberto infatti non parla, ha un impaccio motorio e molti comportamenti che rientrano nello spettro autistico.
Inutile dire che la nostra vita sia stata travolta e stravolta: abbiamo iniziato a provare tutte le terapie possibili trascorrendo anni duri, pieni di angoscia e di ostacoli. Ascoltando le storie di altre famiglie come la nostra, gli ostacoli ricorrono sempre: c’è tanta, tantissima burocrazia da sbrigare, una continua produzione di documenti e una grande difficoltà nel vedersi riconoscere i diritti, rispetto ai quali c’e una grande disinformazione.
Nel frattempo Alberto aveva iniziato la scuola, e l’inserimento con gli altri bambini procedeva bene nonostante un faticoso lavoro speso nell’intessere relazioni con i coetanei e nel creare occasioni di interazioni.
Durante l’adolescenza, però, le difficoltà nei rapporti con i coetanei si sono acuite: Alberto era sempre più escluso, abbiamo provato a iscriverlo a una scuola superiore ma è molto difficile trovare istituti attrezzati e pronti ad accogliere chi ha disabilità
Siamo approdati quindi al Centro Diurno per i Disabili, che accoglie i ragazzi dai 18 anni in su: una struttura di tipo assistenzialistico e poco inclusiva.
Circa 12 anni fa c’è stato però un incontro magico e fatale: quello con il prof. Cuomo, un esperto molto illuminato che aveva svolto per vari anni delle ricerche sulla disabilità in ambito europeo. Fin da subito ci ha proposto un modello di intervento pedagogico che non era assistenzialistico, ma basato su una visione completamente diversa della persona con disabilità, considerata una persona con sì dei limiti, ma anche dei talenti, delle attitudini, dei bisogni e dei desideri. Cuomo aveva un’ottica di intervento inclusivo e di sviluppo delle potenzialità cognitive e questo ci piacque moltissimo.
VEDI ANCHE CultureEsiste una differenza tra uguaglianza ed equità?Fu proprio grazie a quell’incontro che iniziai a pensare a mio figlio in maniera totalmente diversa, guardandolo sotto una luce differente: Alberto non aveva solo tutti quei limiti che mi ripetevano gli specialisti, ma anche delle risorse e delle potenzialità
Seguendo questo tipo di progetto pedagogico, abbiamo incominciato a lavorare con l’equipe del prof. Cuomo (associazione AEMOCON) e abbiamo fondato la Fondazione CondiVivere. Abbiamo iniziato a creare, sotto la supervisione scientifica dell’associazione, delle situazioni e dei contesti di vita sociali in cui i ragazzi potessero essere immessi in modo inclusivo: le famiglie stesse sono state formate nel tempo al metodo in modo che l’indirizzo pedagogico fosse seguito fuori e dentro casa con la maggior coerenza di interventi possibile.
Successivamente la Fondazione, attraverso l’operato della Cooperativa Sì, si può fare, ha creato delle palestre di autonomie, mettendo a disposizione delle case in cui i ragazzi potessero imparare a gestire il quotidiano con la mediazione degli educatori, attraverso una partecipazione vera e azioni concrete come fare la spesa, farsi da soli il pranzo e così via. Alcuni ragazzi sono stati inseriti anche in contesti lavorativi!
Questa partecipazione attiva al lavoro e alla vita domestica determina uno sviluppo di tipo cognitivo: le potenzialità dei ragazzi con disabilità fioriscono. La frase del Prof. Cuomo e della sua associazione che ci guida è: Il desiderio di esistere e l’emozione di conoscere. Significa che ogni essere umano, se spinto da un desiderio di conoscere, mette in moto una serie di azioni concrete. Ci dev’essere però questa spinta emotiva, questa molla.
Quello che fa la Fondazione è proprio creare i contesti dove possa avvenire tale stimolazione. Non siamo noi a scegliere o a fare per loro. È così che ho visto mio figlio crescere davvero
Nel frattempo, solo 5-6 anni fa abbiamo ricevuto finalmente una diagnosi per Alberto, scoprendo che è affetto dalla Sindrome di Angelman, una malattia rara che colpisce 1 persona su 20.000. Nessuno poteva immaginare che Alberto avrebbe potuto fare questo tipo di percorso: Alberto ora vive nella casa di Dergano quattro giorni a settimana insieme a un’assistente personale e ha una sua vita indipendente da quella della famiglia, organizzata secondo alcuni impegni e responsabilità ma anche secondo i suoi desiderie la sua capacità di autodeterminazione. Inoltre lavora in negozio, fa un tirocinio in una bottega di restauro di mobili e partecipa alle attività della cooperativa. Fa la spesa, prepara da mangiare, invita gli amici a casa: lo vedo sempre più sereno e sempre più consapevole.
La Fondazione punta a mettere le basi per il “dopo di noi”: infatti, tutti i genitori delle persone con disabilità si chiedono: “cosa succederà quando non ci saremo più?”. Creare questi contesti di vita autonoma mette le basi per far sì che questo percorso continui anche senza di noi.
In questo percorso di crescita di Alberto, ha aiutato molto il fatto di ribaltare la prospettiva sulla disabilità: sottolineare i limiti e le cose che non ci sono, come viene fatto generalmente, inchioda la persona a rimanere quello che è. La etichetta e la paralizza
Pensare invece che ci possano essere delle potenzialità su cui lavorare vuol dire dare la speranza di un percorso e vedere la persona in una maniera costruttiva e non distruttiva. Io mi accorgo di com’è soddisfatto Alberto quando riesce ad avere occasioni di successo, com’è sereno da quando è riuscito a trovare una sua collocazione nel mondo.
Solo un cambio di prospettiva può portare a un buon inserimento lavorativo e sociale nella consapevolezza che ognuno ha la propria storia, i propri talenti e le proprie potenzialità.