Fotografia di guerra: perché la parità di genere è ancora lontana
«I miei amici e i miei familiari ogni tanto mi chiedono perché le fotogiornaliste non accettino meno lavori per preservare la loro vita privata e la loro integrità fisica», ha scritto qualche anno fa sul New York Times la fotoreporter Lynsey Addario in un articolo dal titolo emblematico: “Che cosa può raccontare una fotogiornalista incinta? Tutto”.
«La verità è che la differenza che esiste tra una fotografa che lavora in studio e una fotogiornalista è la stessa che esiste tra una fumettista satirica e una pittrice di quadri astratti», continuava Addario. «L’unica cosa che hanno in comune è la pagina bianca. Sono lavori che presuppongono talenti diversi e desideri diversi.
Partire su due piedi, prendere il primo aereo disponibile, sentire la responsabilità di raccontare guerre, carestie e crisi umanitarie è il mio lavoro. Smettere di fare tutte queste cose vorrebbe dire licenziarmi da sola
concludeva Addario, che nel 2009 ha vinto il premio Pulitzer per la cronaca internazionale dopo aver lavorato in Afghanistan, Iraq, Sudan e Yemen.
Per molte fotografe di guerra e fotoreporter di tutto il mondo, però, il problema non è tanto smettere di lavorare, quanto iniziare a farlo o avere la possibilità di farlo ad alti livelli.
La terribile distorsione a favore dei fotogiornalisti è stata evidente fin dal momento in cui ho iniziato, e ho visto molti pochi progressi da allora
ha raccontato la fotoreporter Daniella Zalcman, nel 2017 al The Guardian. Per sfatare il pregiudizio molto diffuso nelle redazioni secondo cui le fotogiornaliste sono “impossibili da trovare”, Zalcman ha fondato Women Photograph, un’associazione non-profit che in pochi anni ha raccolto un database di più di 1,300 fotogiornaliste indipendenti e reporter non-binary. In questo modo, Zalcman e la sua squadra sperano di dimostrare agli editor (e ai colleghi) che
le fotogiornaliste non mancano: manca la volontà di assumerle
I dati sulla parità di genere nel fotogiornalismo
Per farlo, Women Photograph ha anche iniziato a raccogliere dati, mettendo a confronto le prime pagine di otto grandi quotidiani internazionali: il New York Times, il Wall Street Journal, il Washington Post, l’LA Times, il San Francisco Chronicle, The Globe and Mail, Le Monde e il The Guardian.
«Abbiamo selezionato questi quotidiani per molti motivi diversi,» spiegano le autrici del report, tra cui «la loro straordinaria influenza sulla comunità dei fotogiornalisti». Tra questi,
il giornale ad aver pubblicato in prima pagina più foto scattate da donne è il San Francisco Chronicle (47,4%), mentre al secondo e terzo posto troviamo rispettivamente il New York Times (25,5%) e il Washington Post (25%).
Di questo passo, tuttavia, «non raggiungeremo la parità di genere nel fotogiornalismo in tempi molto brevi. Nonostante ci sia stato un miglioramento costante da quando abbiamo iniziato a raccogliere questi dati nel 2017, il ritmo è troppo lento».
Considerando i dati raccolti dal 2017 a oggi, infatti, la parità di genere verrà raggiunta tra almeno 13 anni, nel 2035
Tenendo conto invece solo degli ultimi due anni, in cui il tasso di miglioramento è sceso dal 1,7% all’anno al 0,8%, la linea di arrivo diventa il 2057.
Speriamo che questi dati aiutino a […] supportare il lavoro di donne e persone non binarie del settore e quello di chiunque offra punti di vista in grado di trasformare un ambiente storicamente bianco, occidentale e patriarcale
spiegano le autrici del report. Di fatto, Zalcam precisa che «ogni fotogiornalista sperimenta ogni giorno qualche forma di molestia, dalle microaggressioni a veri e propri episodi di violenza sessuale». E aggiunge:
Non riesco a contare il numero di volte in cui un fotografo mi ha preso la macchina fotografica di mano, aggiustato le impostazioni e me l’ha ridata pensando di starmi facendo un grande favore
Questione di sguardo (o forse no)
La fotografia non è poi tanto diversa dalla vita: porti sempre con te la tua identità, ovunque tu vada
afferma in un articolo del Women Media Center Nichole Sobecki, vincitrice del Robert F. Kennedy Human Rights Award per il suo lavoro sulla crisi migratoria africana. «In quanto donna, vengo costantemente sottovalutata e ovviamente cerco di trasformare [questo pregiudizio, ndr] in un vantaggio», spiega Sobecki.
Solo le fotogiornaliste riescono a comunicare con le donne che vivono in contesti particolarmente oppressivi (come il regime dei talebani in Afghanistan, ad esempio) o ad affrontare temi come le mutilazioni genitali femminili o il matrimonio infantile
Secondo alcune ricerche, inoltre, lo sguardo delle fotografe di guerra sui conflitti sarebbe significativamente diverso rispetto a quello dei colleghi. «I risultati che ho raccolto suggeriscono che il genere è un fattore chiave nel definire l’estetica e l’etica della fotografia di guerra», spiega Angela Varricchio, che studia la fotografia di guerra da un punto di vista femminista all’Università di Lancaster.
Analizzando le fotografie della guerra in Yemen scattate da professioniste e professionisti a livello internazionale, Varricchio è arrivata ad affermare che
mentre i fotografi di guerra tendono in generale a reiterare meccanicamente stereotipi fotografici basati sui danni fisici e psicologici del conflitto sui civili, le fotografe di guerra rivolgono maggiormente l’attenzione sulla reazione resiliente dei civili alle conseguenze drammatiche dei conflitti armati
Alcune fotografe di guerra non sono d’accordo con questa interpretazione del loro lavoro che ritengono sia limitante e fuorviante; altre si chiedono se il loro interesse per l’impatto delle guerre sui civili (che spesso sono donne e bambini) sia la causa o la conseguenza del loro sguardo sul conflitto.
Per tutte, il dibattito sul ruolo e sulla presenza delle reporter nel mondo del giornalismo rimane aperto
«Sì, stiamo ancora discutendo sulle stesse cose», afferma Michele McNally, che ha iniziato a lavorare come fotoreporter per il New York Times nel 1978.
Ma la verità è che è una discussione che dobbiamo fare