Gogna mediatica: perché a subirla di più sono le donne?
Il caso di una Preside romana accusata di avere una relazione con uno studente, esposta dalla stampa a una vera e propria gogna mediatica, è il più recente ma non certo l'unico caso di doppio standard nel trattamento di una notizia.
L'applicazione di principi di giudizio diversi nei confronti di persone differenti che si trovino nella stessa situazione (in questo caso le donne rispetto agli uomini) è legata a dinamiche precise che riguardano non solo il sessismo, pervasivo non solo nel mondo del giornalismo.
L’importanza di essere visibili
Sottolineare continuamente che a fare qualcosa sia una donna equivale a rimarcare l’eccezionalità di un caso in un sistema in cui, di norma, il successo è appannaggio degli uomini. La cosa fa notizia proprio perché, di base, una donna non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere.
Se ne è accorto presto l’account Instagram @ladonnaacaso, che ha cominciato a denunciare sistematicamente, con ironia, tutti i casi in cui i nomi delle donne non vengono menzionati affatto o se menzionati non presentano il cognome, a differenza di quanto viene concesso agli uomini (a volte, anche nello stesso rigo), e sicuramente è difficile che presentino il titolo o una qualifica. Con il risultato di diminuire l’autorevolezza dei soggetti coinvolti e di ridimensionare il loro ruolo, magari riducendolo a «moglie di» o «fidanzata di», come è capitato a Giorgia Soleri, che nel sottopancia di una recente intervista che ha concesso a Rai1 è stata definita unicamente come «fidanzata di Damiano dei Maneskin».
Clamoroso è stato il caso delle scorse Olimpiadi di Tokyo 2020, quando la stampa italiana ha nominato le atlete e campionesse olimpiche quasi senza eccezioni sempre e solo con il loro nome di battesimo.
Negando l’identità sociale di una donna, omettendo cioè il cognome o la sua professione, la si relega a comparsa della storia di cui dovrebbe essere invece protagonista
Il doppio standard nei casi di violenza
Nel contesto di un giornalismo che reitera tali pregiudizi e riflette la diversa posizione che uomini e donne ricoprono nella società, non sorprende di vedere applicato anche un doppio standard nei casi di violenza.
Il punto di vista offerto dai media è quasi sempre solo quello maschile. All’uomo che è colpevole di violenza, spesso vengono dedicate molte righe e attenzioni, nonché un contesto all’interno del quale la violenza viene presentata come incredibile e inaspettata, e in fondo si riesca quasi a empatizzare con il colpevole.
A volte, invece, succede l’esatto contrario. Pensiamo ad esempio a Carol Maltesi, ventiseienne uccisa brutalmente dal suo ex e vicino di casa Davide Fontana. Di lui si sa pochissimo; di lei, sappiamo molto di più. In particolare, conosciamo i dettagli del fatto che Carol fosse anche una pornostar chiamata Charlotte Angie, a cui è stata dedicata un’attenzione che non celava la voglia di far conoscere meglio la vittima quanto, piuttosto, un interesse carico di giudizio.
L’attenzione è sbilanciata sulla donna anche nel caso, recente e citato in apertura, in cui la preside di un liceo romano è stata accusata di avere avuto una relazione consenziente con uno studente maggiorenne. Tuttavia, pur non essendoci reato né notizia, della donna sono stati rivelati nome, immagine, dettagli della vita privata. Del ragazzo, pur essendo colui che ha pubblicato il materiale, sappiamo solo l’età.
La violazione della privacy, oltre a determinare un danno in termini di reputazione per la professionista, ha contribuito a consolidare una narrazione per cui il diciannovenne sarebbe una vittima da proteggere.
Il rischio di tali narrazioni, figlie della cultura dello stupro, è normalizzare la violenza di genere, non mettere a fuoco la sua portata socioculturale. In più, si deresponsabilizza il carnefice, e l’opinione pubblica potrebbe sottovalutare il problema.
Sbagliare il nome delle cose porta inevitabilmente anche a sbagliare l’approccio morale da tenere nei loro confronti
Non dimentichiamo, infatti, che questo è lo stesso motore dei suicidi, tristemente numerosi, che seguono la pubblicazione illecita di video privati e diventati virali: per colpa del web, le donne protagoniste vengono subito raggiunte dall’odio di centinaia di utenti, che racconta loro la storia di un’umiliazione e di una colpa anziché proteggerle dalla violenza di cui sono state vittime.
Il giornalismo, però, non deve e non può farsi strumento della stessa violenza.