La L in LGBTQIA+ viene per prima: ecco perché

01-06-2022
Inizialmente, l'acronimo che oggi conosciamo come LGBTQIA+ era conosciuto come GLBT (gay, lesbian, bisexual, transgender). Negli anni, l’acronimo ha cercato di essere più inclusivo possibile. Inoltre, lo spostamento con il termine lesbian in posizione iniziale è stata una mossa dichiaratamente attuata per onorare il ruolo della comunità lesbica e il loro protagonismo durante la prima diffusione dell’AIDS.
Ecco cosa significa

Da GLBT a LGBTQIA+

L'acronimo LGBTQIA+ è il termine ombrello che cerca di comprendere gli orientamenti sessuali e le identità di genere comprese nello spettro. Si riferisce, rispettivamente, a Lesbiche, Gay, persone Bisessuali, Transgender, Queer, Intersessuali e Asessuali e/o Aromantiche. Il segno + è usato per includere altri orientamenti sessuali come la demisessualità, la pansessualità, ecc. e identità di genere come pangender, bigender, ecc.

L'acronimo è cambiato e si è evoluto nel corso degli anni, aggiungendo varie lettere man mano che si riconoscevano nuove identità. Anche l'ordine è stato modificato, passando dall'iniziale stato fluttuante, GLBT o LGBT, al termine fisso LGBTQIA+ che conosciamo oggi

Quando si sono formati i primi movimenti per i diritti, erano proprio gli uomini gay a guidare le proteste. Ci si concentrava sulle questioni maschili, e le lesbiche, le donne bisessuali e le persone transgender di entrambi i sessi venivano perlopiù ignorate dal dibattito, e i loro diritti venivano lasciati indietro. Non stupisce, quindi, che qualche anno più tardi cominci a diffondersi l’acronimo con la “G” di gay in apertura.

Il cambiamento della formazione va fatto risalire alla fine degli anni ’90, subito dopo lo scoppio della violenta epidemia di AIDS.

La doppia oppressione delle donne lesbiche

La storia del movimento lesbico, anche in Italia, ci racconta che le donne lesbiche abbiano dovuto combattere nel tempo una battaglia doppia: quella in cui prima veniva l’essere donna, sia nel senso di appartenenza che come posizionamento politico; l’altra in cui invece l’omosessualità era prioritaria rispetto alla declinazione di genere.

Le due diverse prospettive, nel corso del tempo, talvolta si sono intrecciate e talvolta si sono scontrate: le donne che facevano parte di gruppi omosessuali accusavano le lesbiche che stavano nel movimento delle donne di non rivendicare il loro lesbismo e di nascondersi dietro l’etichetta di femminista, mentre le lesbiche femministe rimproveravano alle altre il disinteresse per i diritti e le lotte delle donne e di non capire che alla base di qualsiasi oppressione, anche quella omosessuale, ci fossero il sessismo e il sistema patriarcale.

Alle donne lesbiche, in entrambi i movimenti, fu richiesto uno sforzo maggiore in termini di riflessione e di analisi perché la loro specifica soggettività potesse emergere

Con questo obiettivo Mariasilvia Spolato, la prima donna lesbica a fare coming out in Italia, fondò nel 1971 il Fronte Liberazione Omosessuale: le donne lesbiche - sosteneva Spolato - devono liberarsi dalla “doppia oppressione” che subiscono in quanto donne e omosessuali.

La rivendicazione di spazi, anche fisici, continua ancora oggi: il Lesbian Bar Project, per esempio, racconta che molti locali dedicati alle donne lesbiche a New York stiano chiudendo (ne sono rimasti meno di due dozzine in tutti gli Stati Uniti).

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Inoltre, lesbiche, persone transgender e bisessuali sono storicamente sottorappresentate dai media rispetto agli uomini gay. Fortunatamente, la situazione sta cambiando, sia per quantità della rappresentazione, sia per la sua qualità.

Prima di oggi, però, la rappresentazione degli uomini gay era terribilmente stereotipata, anche se abbastanza comune in ruoli comici, negli anni ’90 e ’00, e quella delle lesbiche era quasi inesistente, relegata a personaggi secondari o comparse

Si trattava del riflesso della mancata rappresentazione anche all’interno della comunità.

Gli anni ’90 e l’epidemia di AIDS

A partire dagli anni ’80, le idee femministe si sono diffuse maggiormente, cercando di mettere al centro del dibattito anche le donne lesbiche, sebbene gli uomini gay fossero ancora poco ricettivi.

Verso la fine degli anni ’90 si verifica la prima grande diffusione dell’AIDS. A partire dai primi casi osservati in Africa, la malattia si diffonde presto anche in altri paesi.

Inizialmente, l’AIDS veniva diagnosticato quasi esclusivamente a persone gay o persone transgender che avevano rapporti con altri uomini. Il dato è stato interpretato in una falsa associazione tra il virus e comportamenti sessuali giudicati promiscui, convinzione che ancora oggi è alla radice dello stigma sull’HIV: addirittura, c’è chi ha creduto che il virus fosse il modo in cui Dio avrebbe punito queste persone.

La resistenza e la fobia nei confronti di queste categorie di persone, già fortemente emarginate, sono aumentate tantissimo. Si parlava di peste gay: ci sono voluti anni perché la comunità scientifica riuscisse a smentire queste ipotesi

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Il ruolo delle donne

Un’enorme porzione di uomini, quindi, era affetta da AIDS, mentre la comunità lesbica era colpita molto meno.

Le donne, in questo caso, hanno dato prova di sostegno e solidarietà: sono rimaste insieme agli uomini infetti offrendo loro assistenza, cibo, alloggi, donazioni di sangue. Si sono occupate di fornire cure mediche fino a quando, con una maggiore consapevolezza della malattia, la crisi ha cominciato lentamente a placarsi.

Soprattutto, hanno combattuto attivamente per la comunità gay e contro lo stigma dell’AIDS. Da un punto di vista politico, hanno presidiato la lotta.

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Per esempio, hanno avuto un ruolo di primo piano nelle proteste dell'AIDS Coalition to Unleash Power (ACT UP), un'organizzazione internazionale ad azione diretta, impegnata a richiamare l'attenzione sulle vite dei malati di AIDS.

Il potere trasformativo e il cambiamento dell’acrononimo

Inoltre, le donne sono state grandemente ignorate dalla scienza medica e dalla ricerca, con conseguenze gravi a livello di diagnosi e cure: molte morivano per questa ragione.

Eclatante, ad esempio, è stato il caso dell’articolo pubblicato a gennaio 1988 dallo psichiatra Robert E. Gould: “Rassicuranti Notizie sull'AIDS: un dottore racconta perché potresti non essere a rischio”. Secondo Gould, durante il sesso vaginale non protetto tra un uomo e una donna entrambi aventi “genitali sani” non c’era rischio di trasmissione dell’HIV, anche se il partner maschile era infetto: le attiviste dell’ACT UP protestarono contro la parzialità di questo articolo, privo di supporti bibliografici e che scritto da uno psichiatra, con slogan come “Sì, la ragazza Cosmo PUÒ prendere l'AIDS!”, ottenendo una parziale ritrattazione.

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Il comitato delle donne dell’ACT UP si mosse anche contro il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), perché cambiasse i parametri di attenzione all’HIV:

mentre le cause della trasmissione del virus erano simili tra uomini e donne, i sintomi variavano enormemente, e le donne ricevevano spesso diagnosi sbagliate, senza possibilità di accedere ai sussidi di assistenza sociale

È nel gennaio 1993 che finalmente vengono aggiunti quindici punti condizionanti alla lista che definiva i parametri di attenzione del CDC. Grazie a questi nuovi criteri, il numero di donne infette negli Stati Uniti venne definito con più precisione, crescendo quasi del 50%.

A partire dal protagonismo che le donne lesbiche hanno avuto per la prevenzione e la cura dell’AIDS, con il tempo è divenuta una pratica standard usare la “L” prima della “G” nell’acronimo: un modo di onorare le donne, in questo caso le donne lesbiche della comunità, per il loro servizio, il loro sostegno e la loro solidarietà, ma anche per dare loro la visibilità per cui avevano lottato.

Il rapporto tra i due gruppi si è fatto più stretto, e ha aperto la strada a una maggiore apertura anche nei confronti di altre categorie: le idee femministe hanno finalmente preso piede anche fra gli uomini della comunità, che è diventata più solidale al suo interno

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