Lavoro e privacy: cosa fare se il capo ci segue sui social?

Secondo le ultime statistiche, l'uso delle piattaforme di social media continua a crescere rapidamente. Al momento 4,74 miliardi di persone utilizzano i social media in tutto il mondo (il 59,3% della popolazione mondiale) e la maggior parte degli utenti accede ai propri account giornalmente. Ecco perché nel mondo del lavoro può essere necessario difendersi da intrusioni poco gradite. Vi spieghiamo come fare

Non sono solo i giovani a utilizzare i social network. Anche i cosiddetti "Boomer" hanno preso piede sulle piattaforme social egli utenti di età superiore ai 50 anni sono, ad esempio, la categoria in più rapida crescita su Twitter. 

Una recente ricerca condotta dal Dipartimento di Neuroscienze Cognitive e Psicologia dell’Università di Harvard ha del resto dimostrato scientificamente che dare informazioni su di sé stimola le stesse zone del piacere che vengono attivate dal cibo, dal denaro e dal sesso

Perché è probabile che il capo sbirci i nostri profili social

Se questi sono i dati di partenza, è facile ritenere che, tramite l’utilizzo dei social network, anche il datore di lavoro – o ancora più spesso i colleghi – possano venire a conoscenza, a costo zero, di innumerevoli informazioni e dati attinenti alla nostra vita privata.

Questa deduzione corrisponde a un dato reale: in diverse occasioni, infatti, le aziende contattano i propri legali al fine di valutare, ad esempio, la rilevanza di informazioni acquisite su un dipendente tramite l’uso di Instagram o ancora degli screenshot di post e commenti pubblicati su LinkedIn dai propri dipendenti, ricevuti da altri colleghi di lavoro.

Il parere che in questi casi viene generalmente chiesto all’avvocato giuslavorista (ovvero all’avvocato esperto in diritto del lavoro) è sempre lo stesso:

fino a che punto tali informazioni possono essere utilizzate dal datore di lavoro? I post e i commenti pubblicati su Facebook, Twitter ed Instagram possono giustificare il licenziamento? La risposta è: in teoria, sì. Quindi meglio essere attenti all’utilizzo che si fa di tali piattaforme

Pensate solo che nel 2015 la Corte di Cassazione ha considerato legittima la condotta di una società che aveva creato un finto profilo Facebook con il quale aveva contattato un proprio dipendente, poi licenziato perché durante l’orario di lavoro aveva – diverse volte - abbandonato la propria postazione lavorativa per poter rispondere ai messaggi ricevuti sul social.

Vita privata, social e lavoro: quando non dobbiamo preoccuparci

Dal punto di vista del diritto, la personalità del dipendente è di per sé irrilevante ai fini del suo rapporto di lavoro. Le legge, e il generale divieto di discriminazione, escludono che il datore di lavoro possa effettuare indagini su tutte le informazioni che attengono all’orientamento ideologico del lavoratore: opinioni politiche, religiose o sindacali. Tali informazioni sono ritenute estranee ed ininfluenti rispetto al posto di lavoro.

Non solo. In termini generali tutti i comportamenti tenuti dal dipendente al di fuori dell’orario di lavoro non possono essere utilizzati dal datore di lavoro a suo danno

Ad esempio, l’azienda non potrà indagare sulle persone che il dipendente frequenta dopo il proprio turno di lavoro, né tantomeno giudicare l’abbigliamento indossato nel weekend o i locali dove questo si reca.

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Ciò a meno che i comportamenti del lavoratore possano incidere sulla sua attitudine professionale.

Ma cosa significa? Per comprendere meglio quanto appena detto sarà sufficiente analizzare qualche sentenza in materia.

I giudici di Massa nel 2019 hanno considerato legittimo il licenziamento di una dipendente che durante il periodo di malattia risultava, dalle foto e dai commenti di Facebook, fosse partita in aereo per una vacanza di piacere nel Regno Unito.

E ancora, il Tribunale di Sassari nel 2021 ha giudicato giustificato il licenziamento di un operatore sanitario che durante il turno di lavoro si era travestito da “Samara” (personaggio femminile che compare nel film dell'orrore “the ring”) allo scopo di spaventare le colleghe e aveva poi scattato delle foto pubblicate su Facebook.

Il Tribunale di Civitavecchia nel 2020 ha, inoltre, ritenuto il licenziamento di un dipendente di una compagnia aerea che aveva pubblicato sul suo profilo Facebook una foto ritraente alcuni dirigenti aziendali con evidenti caricature che ne alteravano l'aspetto, con l'inserimento dei diversi commenti offensivi e minacciosi.

Viceversa, la Corte di Appello di Firenze nel 2021 ha considerato illegittimo il licenziamento di un dipendente che aveva registrato su una chat di WhatsApp, alla quale partecipavano altri 13 colleghi, alcuni messaggi vocali riferiti al proprio superiore, con contenuti offensivi e denigratori, tenuto conto del diritto alla segretezza della comunicazione privata.

Come difendere la privacy sul posto di lavoro

In conclusione, se questi sono gli orientamenti dei nostri Tribunali, il vademecum per una corretta gestione dei social network da parte del dipendente modello non potrà non prevedere:

  • la preferenza di comunicazioni tramite l’uso di canali privati (e-mail, Whatsapp, etc.), rispetto a social network aperti ad un numero illimitato di utenti;
  • l’utilizzo di profili “chiusi” al pubblico, attivando le apposite impostazioni di privacy;
  • il controllo di richieste di amicizia provenienti da profili “sospetti”;
  • evitare di pubblicare commenti diffamanti sulla propria azienda e/o sui prodotti/servizi dalla stessa commercializzati.

Nel caso in cui invece si verifichino situazioni intollerabili (es. mobbing, molestie, ecc.), è sempre meglio rivolgersi a un legale per far valere i propri diritti.

In altre parole: prevenire è sempre meglio che curare.

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