Michela Murgia e l’arte di vivere: un racconto personale

Parlare di una malattia terminale è l’ultimo tabù in una società che non ci insegna né a vivere né a morire. Sappiamo che le malattie e la morte accadono, e in genere speriamo che tocchino a noi il più tardi possibile. Nel mezzo, riempiamo la nostra vita all’inverosimile per non pensarci. Michela Murgia è forse il primo personaggio pubblico a raccontare coraggiosamente la malattia, un tumore allo stadio terminale. Non un alieno da combattere, come lo definiva Oriana Fallaci, ma “una parte della mia complessità”. Una definizione che cambia la narrazione della malattia, aprendo squarci di consapevolezza

I post di Michela Murgia sono i primi che appaiono nel mio feed di Instagram. La sua vicenda mi tocca nel profondo: mio padre è mancato per un tumore alla pelle, un melanoma, e mia zia materna di un tumore al seno. Mia mamma mi aspettava quando mia zia si aggravò. Si può dire che io sia nata insieme alla sofferenza per la malattia di una persona cara.

La consapevolezza strisciante che la vita sia fragile, fragilissima, mi accompagna fin da bambina. Una consapevolezza pesante, di piombo

Uno degli ultimi post di Michela Murgia è una foto del gasometro di Roma illuminato, di notte. Sembra protendersi verso il cielo. Cosa pensa chi sa di avere ancora poco da vivere? Quali paure trafiggono la mente e quali sensazioni attraversano il corpo? Me lo sono chiesta spesso, ripensando a mio papà. Fino all’ultimo, io e mia mamma non riuscimmo a capire cosa stesse pensando. Nell’hospice, dove trascorse gli ultimi giorni, ci rifiutammo di lasciare che i medici gli comunicassero la sua situazione. Mangiava, era sereno, sperava di uscire presto (o forse sapeva?). Era un uomo che non si arrendeva. “È un suo diritto saperlo”, ci dissero. E noi, quel diritto, glielo abbiamo negato. Ancora oggi mi chiedo se sia stato davvero meglio così per lui. Ma chi ha vissuto situazioni simili lo sa: in quei momenti di spaesamento e angoscia profonda, si fa ciò che si pensa sia giusto fare. Non esistono errori, solo il tentativo goffo e maldestro di reagire alla consapevolezza della caducità della vita. Di difendersi dalle vertigini del dolore.

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Ricordo perfettamente il giorno in cui Michela Murgia rilasciò quella celebre intervista al Corriere della Sera in cui rivelò del suo tumore al rene. La lessi d’un fiato e capii subito che Michela Murgia stava facendo qualcosa di straordinario:

nel comunicare la sua malattia incurabile, ci dava una lezione di vita. Anzi, ancora meglio: una lezione di gioia per la vita e di profonda libertà

Perché il messaggio racchiuso in quell’intervista era: “sono viva e sono grata di ciò che la vita mi ha dato. La malattia e la morte sono parte stessa della vita”. Nessun rancore verso il destino, anzi.

Invece di nascondere la malattia, Murgia la stava illuminando come una parte della sua vita, forse neppure la peggiore

Una cosa normale, che può capitare a chiunque, perché la vita è inestricabilmente legata alla malattia e la morte. Una filosofia che ho ritrovato approfondendo il pensiero buddista ma che non mi era ancora capitato di sentir risuonare sui media. Finalmente, ho pensato.

Ognuno dei suoi post – per lo più riflessioni sulla vita e sull’amore, con la sua “queer family” che sfonda l’arroganza di chi pretende di sapere cosa definisca una famiglia – è come una scossa, una sveglia che mi ricorda di vivere intensamente ogni momento sapendo che non si ripeterà, di allenare la meraviglia, di ringraziare per la vita che ho e per le persone che mi stanno accanto, di amare tanto e con gentilezza. Di non farmi limitare dal contesto in cui vivo e di esercitare la mia libertà sempre, in tutti i campi. Di alleggerire la mente dai pensieri inutili, dalle lamentele e dal giudizio. Di abbracciare tutto ciò che la vita mi offre (o almeno provare a farlo).

E in un sistema che ci vuole automi, quello di vivere follemente è forse il promemoria più sovversivo

Ma del resto, Michela Murgia è sempre stata un personaggio scomodo. Lo è fino all’ultimo.

Grazie.

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