Good News/Bad News: le notizie sui diritti civili di settembre 2023
Vietato l’abaya nelle scuole francesi
In Francia sarà vietato indossare a scuola l’abaya (per le ragazze) e il qamis (per i ragazzi), le lunghe tuniche che lasciano scoperti solo testa, mani e piedi e che rappresentano i capi di abbigliamento tradizionali della cultura e religione islamica. Lo ha deciso il nuovo ministro dell'Istruzione Gabriel Attal, sulla base di un dato diffuso nel Paese nei giorni scorsi: nell'anno scolastico appena concluso, le segnalazioni di atti contrari alla laicità sono aumentate del 120% rispetto all'anno precedente.
Una decisione presa in nome della laicità, dunque, e sulla base della cosiddetta legge sulla laicità nelle scuole, che dal 2004 vieta l’ostentazione di simboli e abiti religiosi negli istituti. Per Attal, indossare l’abaya è «un gesto religioso, volto a testare la resistenza della Repubblica al santuario laico che la scuola deve essere. Quando si entra in un'aula, non si deve essere in grado di identificare la religione degli alunni guardandoli», aveva detto a TF1.
Immediate le proteste della comunità musulmana, con il Consiglio Francese della Fede Musulmana (Cfcm) che ha sottolineato come l'abaya non sia un simbolo religioso musulmano, ma una tradizione culturale. Secondo Haoues Seniguer, docente dell’Iep di Lione e specialista di islamismo sentito dall’Afp, il suo uso è "più ambivalente di un velo”. Stabilire che l’abaya o il corrispettivo maschile, il qamis, siano simboli religiosi, e dunque vietarli così come stabilito dalla legge del 2004 è quindi complesso, e per nulla scontato. Il dibattito si è prevedibilmente acceso anche sui social, dove molte persone stanno condividendo anche foto di abiti che riprendono la linea dell’abaya, ma che tali di fatto non sono, chiedendo dove stia la differenza.
La Corte di Strasburgo condanna l’Italia: violati i diritti di una bambina nata con maternità surrogata
VEDI ANCHE CultureFamiglie omogenitoriali: fine dei diritti? Intervista a Francesca VecchioniDalla Cedu, la Corte europea per i diritti umani, arriva una importante sentenza a tutela dei diritti dei bambini nati con maternità surrogata. La Corte di Strasburgo ha infatti stabilito che lo Stato italiano ha violato i diritti di una bambina nata nel 2019 in Ucraina con il ricorso alla maternità surrogata, impedendo il riconoscimento legale del rapporto di filiazione con il padre biologico e facendo di lei un'apolide.
La vicenda risale al 2021, quando il padre biologico e la madre intenzionale della bambina, entrambi cittadini italiani, hanno presentato un ricorso dopo essersi visti rifiutare più volte dagli uffici dell’anagrafe e dai tribunali italiani il riconoscimento legale del legame con la bimba. Un rifiuto che ha lasciato la piccola, oggi 4 anni, in uno stato di “grande incertezza giuridica”, impedendole di avere documenti d’identità, tessera sanitaria, accesso alla sanità e istruzione pubblica.
La Corte, accogliendo il ricorso, ha sottolineato come «i tribunali italiani hanno fallito nell’adempiere all’obbligo di prendere una decisione rapida per stabilire il rapporto giuridico della bimba con il padre biologico», stabilendo che le autorità italiane dovranno versare alla piccola 15mila euro per danni morali e 9.536 per le spese legali sostenute dal padre biologico e la madre intenzionale. Un passo importante nella tutela di tutti i bambini nati da maternità surrogata e del loro diritto al riconoscimento, un tema su cui in Italia infuria il dibattito ormai da tempo.
Le allusioni sessuali sul lavoro sono molestie
Licenziare un dipendente perché ha rivolto allusioni sessuali a un collega o a una collega è legittimo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con una sentenza destinata a fare scuola, arrivata al termine di una vicenda che vede al centro un barista licenziato dopo che una collega aveva denunciato le numerose allusioni sessuali che le erano state rivolte.
Come spiega lo Studio Cataldi, che ha pubblicato la sentenza, la corte d’appello aveva respinto il reclamo del lavoratore licenziato contro la decisione con cui il tribunale di Arezzo aveva dichiarato legittimo il licenziamento. Nello specifico, si era ritenuto nella sentenza di secondo grado che il comportamento dell'uomo, allusioni sessuali verbali indesiderate, denunciato in due diverse occasioni dalla lavoratrice, fosse «idoneo a ledere e violare la dignità della collega di lavoro», e dunque costituisse giusta causa del licenziamento.
E poco importa, come ha sostenuto il dipendente, che il clima dei rapporti tra tutti i colleghi fosse spesso scherzoso e goliardico. L’uomo ha presentato ricorso in Cassazione, ma gli Ermellini lo hanno respinto, equiparando le allusioni a molestie sessuali e confermando il licenziamento.
In Brasile l’omofobia è punibile con il carcere
In Brasile il linguaggio, le offese e gli insulti omofobi sono punibili con il carcere, con una condanna dai due ai cinque anni. Lo ha deciso la Corte suprema brasiliana il 22 agosto con 9 voti favorevoli a 1, equiparando così linguaggio omofobo e odio razzista a livello legale.
La Corte Suprema brasiliana già nel 2019 aveva definito per la prima volta l’omofobia un reato, esattamente come il razzismo, ma sino a oggi si perseguivano soltanto gli attacchi alla comunità LGBTQIA+ nella sua interezza, e non i singoli episodi. Adesso sono invece perseguibili anche gli attacchi omofobi individuali, rivolti a singole persone: «Questa decisione era un imperativo costituzionale», ha detto il giudice Edson Fachin leggendo il provvedimento.
Una decisione accolta con entusiasmo, ovviamente, anche dalle organizzazioni che da anni si battono per la difesa dei diritti: «È una vittoria contro la lgbt-fobia», ha commentato la parlamentare trans Erika Hilton.