Arriva a teatro Din Don Down, spettacolo sul valore dell’inclusione: intervista a Paolo Ruffini
La vera novità sta nel tema al cuore dello show: laddove Up&Down compiva un’indagine sull’amore, Din Don Down abbraccia un nuovo grande concetto, quello di Dio indagando sul concetto del divino, esplorandolo in tutte le sue forme, mettendo così in discussione la normalità e sfidando le convenzioni del “politicamente corretto”. La cifra stilistica però rimane invariata: comicità, disobbedienza e tenerezza, ingredienti che hanno reso unica la collaborazione tra Ruffini e gli attori della Compagnia Mayor Von Frinzius.
Spregiudicato, irriverente, a tratti dissacrante, Din Don Down è l’antidoto ideale per un’epoca che sacrifica ogni forma di leggerezza e audacia all’altare del “politicamente corretto".
Prodotto e distribuito da Paolo Ruffini con la sua Vera Produzione, e diretto da Lamberto Giannini, Din Don Down – Alla ricerca di (D)io è destinato a replicare e forse superare il successo di Up&Down. Le musiche dal vivo di Claudia Campolongo al pianoforte contribuiscono a creare un'atmosfera unica, che avvolge il pubblico in un'esperienza sensoriale completa.
Il tour è partito ufficialmente il 17 ottobre dal Teatro Goldoni di Livorno, e toccherà numerose città italiane nei mesi a seguire, tra cui Fano, Merate, Cantù, Civitanova Marche, Narni, Piacenza, Terracina, Busto Arsizio, Varese, Mestre, Ferrara, e molte altre.
Intervista a Paolo Ruffini
Viviamo in un'epoca in cui il "politicamente corretto" è spesso visto come una barriera.
Con Din Don Down, sembri voler rompere queste barriere. Credi che attraverso l'ironia e la provocazione si possa aiutare il pubblico a riflettere più a fondo su cosa significhi davvero rispettare la diversità?
Il politicamente corretto per me è di una volgarità estrema, una forma di censura. In passato veniva impostata da dittature, oggi è una "sensibilità" nata sul web che condiziona arte e spettacolo. Artisti e cineasti, un tempo liberi di creare, ora devono rispondere al giudizio di chiunque si indigni. Se qualcuno si offende, può rivolgersi a un tribunale per far valere i propri diritti, ma il teatro e l'arte non possono essere condizionati da questa indignazione costante.
Prima il pubblico stava in platea e l'artista sul palco; oggi il pubblico ha i microfoni e l'artista deve stare in silenzio. È surreale, perché l'arte ha il compito di scuotere. La satira, il cinema e il teatro non possono sopravvivere se devono evitare ogni offesa. Molti dicono che ormai non si può più dire niente, ma non è così: si può dire tutto, a patto di essere pronti ad affrontare le conseguenze.
L'artista non crea opere belle, ma opere libere e in quanto libero, continuo a lavorare con indipendenza cercando di fare delle cose che abbiano un senso.
Che rapporto hai col tema della disabilità?
Nel caso della disabilità, argomento che affronto ma che non mi riguarda personalmente non faccio differenze tra persone; per me la disabilità non è diversità, ma unicità. Ho capito, da quello che ho studiato, che non esistono persone normali o speciali, ma persone uniche, esattamente come me, con uno svantaggio che può essere trasformato in un'opportunità di crescita. Quello svantaggio che può essere fisico ma può andar a colmare un mio svantaggio, magari mentale.
Quando ho iniziato con Up&Down, mi dicevano: "che carino che fai spettacoli di beneficenza con questi attori". Ma se non vedo e non vivo un problema, è inutile parlarne. Non direi mai: "Ti presento il mio amico biondo o orfano", quindi perché dovrei dire "amico down"? Il pietismo è la forma più ipocrita di distanza tra gli esseri umani, e io non faccio sconti a nessuno.
Avere attori con disabilità sul palco dovrebbe dunque essere considerato la normalità, ma purtroppo oggi è ancora un'eccezione. Proprio per questo è un gesto di grande inclusione e autenticità. Come pensi che questa scelta possa cambiare la percezione della disabilità nel pubblico?
La percezione della disabilità nel pubblico viene cambiata nel momento in cui non si rende eccezionale questo dato. Ti faccio un esempio: PizzAut secondo me è un progetto straordinario ma il vero passo avanti si avrà quando una persona autistica o con sindrome di Down lavorerà tra altri camerieri senza che ciò venga notato, senza che sarà una distinzione, ma una normalità. Non perché una legge impone di assumere persone di categorie protette, ma perché un imprenditore decide di puntare su qualità come l'empatia, il sorriso o il saluto, piuttosto che sulla velocità nel portare piatti.
Ad esempio, Federico Parlanti, una persona con sindrome di down, ha partecipato a tutte le puntate di Colorado, ma non ho mai sentito il bisogno di sottolinearlo. Era semplicemente un comico, come tutti gli altri. Questo per me è il vero senso di inclusività: non si tratta di beneficenza, ma di investire nella qualità delle persone, senza fare distinzioni. E se mi viene detto: "ma questo è sfruttamento" beh si, sfrutto le caratteristiche uniche di ciascuno, esattamente come quando si scelgono giovani per Romeo e Giulietta. Sta tutto nella volgarità del pensiero e la realtà è molto più semplice ed è molto più interessante delle nostre scuse.
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Cambiando capitolo, in Il Babysitter esplori il mondo attraverso gli occhi dei bambini, che riescono a vedere con una spontaneità e profondità che spesso gli adulti dimenticano. Cosa ti hanno insegnato i bambini con cui hai lavorato, e in che modo ti hanno fatto riscoprire emozioni che spesso noi “adulti” tendiamo a mettere da parte?
In primo luogo, parlo della fede, ma non solo in senso religioso. I bambini hanno fede in Dio, negli alieni, negli unicorni, in Babbo Natale e nelle cose belle. Questa loro fede è meravigliosa. Anche quando devono affrontare argomenti difficili come la morte, riescono a farlo con una semplicità incredibile.
Se dici a un bambino che la nonna è salita in cielo, lui guarda subito verso l'alto, immaginando davvero la nonna in cielo. I bambini vedono oltre, non si fermano alla superficie.
Questa capacità di vivere nel presente è un dono che, da adulti, spesso perdiamo. Un bambino mi ha detto una volta: "La vita è possibile ora", e trovo che sia una grande verità. I bambini vivono nel momento, senza preoccuparsi del futuro. Quando gli chiedi cosa vogliono fare da grandi, ti rispondono l'astronauta, la ballerina o il calciatore, ma non ci pensano davvero. Per loro, la vita è qui e ora.
Per questo io dico che i bambini non sono semplicemente bambini, ma esseri umani bassi. Noi tutti siamo stati così, ma a un certo punto, verso i 12-13 anni, accade qualcosa, un reset della memoria. Dimentichiamo l'infanzia, e con essa le risorse che avevamo allora. a un certo punto ti rendi conto che tu da bambino avevi delle risorse più rispetto a quelle che hai oggi, ma non ti le ricordi più.
Quindi è come se dovessimo iniziare a disimparare, a un certo punto...
Se tornassimo a scuola a 40 anni, non per insegnare ma per imparare dai bambini, dovremmo liberarci di tutte le preoccupazioni inutili, come il lavoro o le responsabilità che nulla hanno a che fare con la vita vera. Non esiste un bambino che inizierebbe una guerra, così come non lo farebbe una persona con disabilità cognitiva. Perché? Perché il loro patrimonio culturale, seppur limitato in alcuni aspetti, è pieno di sensibilità, una qualità che le persone intelligenti a volte dimenticano.
Io ho capito che preferisco stare con persone sensibili piuttosto che solo intelligenti. Le persone intelligenti possono fare una guerra, le persone sensibili no
Il vero contrario della guerra, secondo me, non è la pace, ma la cultura. E la cultura che possiedono i bambini e le persone con certe disabilità è straordinaria, una forma di cultura che non tutti spesso riusciamo a comprendere. I bambini affrontano i problemi in modo diverso. Quando si rompe un giocattolo, per loro è un dramma, ma riescono comunque a continuare a giocare anche con una bambola rotta. Hanno capito che, a volte, la cosa più bella è convivere con i problemi, senza cercare sempre di risolverli.
Hai ideato e sviluppato progetti che mettono l’inclusione e la crescita personale al centro, come il laboratorio di arti sceniche Fattoria Artistica. Come credi che il teatro possa aiutare le persone a superare le proprie fragilità, e in che modo la Fattoria Artistica ci è riuscita?
Ci è riuscita perchè non è un'accademia o un corso di teatro e basta, è un percorso di conoscenza di sé. Il personaggio più complesso da interpretare è se stessi. È facile immedesimarsi in un personaggio come Peter Pan, che ha paure e limiti ben definiti, ma noi siamo molto più complessi. La Fattoria Artistica non è un percorso per diventare attori, ma per scoprire se stessi. Chiunque può "fare" l'attore, ma pochi sono veri attori. E quel percorso non serve solo a chi vuole fare questo mestiere: ci sono persone che lo fanno perché sono timide, altre per imparare a parlare in pubblico, altre ancora perché vogliono imparare a stare sul palco, anche nel silenzio, senza un telefono a cui aggrapparsi.
Il bello è che nella Fattoria non ci sono esclusioni. Partecipano persone di tutte le età, da un ragazzo di 12 anni a un signore di 85. Ci sono persone autistiche, e chiunque, con un corpo e un'anima, può partecipare. È un luogo dove ci si coltiva, dove si coltiva la propria anima, la propria voce, il proprio cuore e pensiero, scoprendo come esprimere tutto ciò attraverso il teatro.
Un altro progetto che incarna perfettamente questi valori è Sospesi, il film realizzato con i ragazzi di San Patrignano nell’ambito del SanPa Cine Lab. Il titolo Sospesi evoca un concetto di pausa, di sospensione tra il passato e il futuro, proprio come la vita all'interno di San Patrignano. Come è stato per te lavorare a stretto contatto con persone che stanno attraversando una fase così delicata della loro vita?
Paolo: Lavorare a San Patrignano è stata un'esperienza incredibile. Abbiamo avuto a disposizione 700 comparse. Il cortometraggio che abbiamo realizzato è stato scritto, diretto e interpretato completamente dai ragazzi di San Patrignano. Ogni ruolo del film, dalla scenografia ai costumi, fino all'illuminazione e alla regia, è stato gestito da loro.
Il film parla d'amore, un amore che insegna a una persona a volersi bene. Le persone che entrano a San Patrignano hanno sospeso la loro vita, proprio come accade a tutti noi quando attraversiamo momenti bui. Lì, però, c'è la forza di chi ha avuto il coraggio e la dignità di chiedere aiuto.
Ricordo un ragazzo che mi ha detto di voler diventare attore perché, per lui, l'attore rappresenta qualcuno che ha ancora un briciolo di dignità. Questo dimostra come l'arte e il cinema possano aiutare le persone a elevarsi, più di quanto faccia qualsiasi discorso sul politicamente corretto.
Il cortometraggio, di 35 minuti, esplora l'amore in tutte le sue forme, compreso l'amore per sé stessi. Amare il prossimo come te stesso significa prima di tutto imparare ad amare noi stessi. E questo amore, a volte, è anche perdono, un tema centrale del film. Il perdono è una parola potente, perché implica non solo il concedere qualcosa, ma anche il lasciare andare, una vittoria personale. Perdo? No.
Concedere il perdono, sia a sé stessi che agli altri, è uno dei gesti più forti e pacifici che possiamo fare per manifestare la nostra presenza nel mondo.
Pensando al tuo percorso artistico e a tutto ciò che hai realizzato finora, quali temi o progetti senti il bisogno di esplorare ancora?
Ho tantissime idee. A livello sociale, mi piacerebbe molto affrontare il tema della malattia mentale, soprattutto quella legata ai manicomi, in particolare quelli per bambini. Ho trovato un argomento molto interessante sui manicomi per bambini, e credo che la salute mentale sia un tema importante, perché riguarda tutto ciò che non è visibile.
Anche per quanto riguarda la commedia, ho tantissimi progetti, alcuni più leggeri e divertenti. Un tema che affronterò sicuramente in futuro è l'educazione. Mi piace concentrarmi sul mondo dei bambini, perché penso che siano una vera speranza, non solo per il futuro, ma per il presente. Credo che dovremmo focalizzarci meno sul domani e più su ciò che può accadere oggi, perché il presente è nelle mani dei bambini.
Parlando con i bambini, ho ritrovato un ottimismo che mi ha curato da un certo pessimismo. I bambini non fanno differenze: non importa se il loro compagno è diverso, se è autistico, down, o ha 25.000 cromosomi. Loro semplicemente giocano insieme, ed è un esempio di amore e fratellanza che dobbiamo imparare anche noi.
Per il futuro ho molti progetti in cantiere: uno spettacolo teatrale, un libro che uscirà a febbraio (non posso ancora dire molto, ma sarà fantastico), e un film che si chiama Poveri Noi. Quindi, ci sono davvero tante cose in arrivo!