Pinkwashing, quando il femminismo diventa una questione di marketing

Il rosa è diventato da tempo il colore simbolo dell’emancipazione femminile e delle molte nobili cause ad esso associate. Non di rado, però, si tratta di un’operazione di marketing dalle finalità opache e poco trasparenti, per ammiccare verso un tipo di utenza attenta e sensibile ai temi sociali e ottenere un ritorno economico e di immagine

Brand di abbigliamento che producono magliette in serie con frasi inneggianti al girl power, volti di iconiche figure femminili del passato divenute simbolo di libertà ed emancipazione ridotte a stampe e mercificate ad arte (l’immagine della pittrice Frida Kahlo su tutte), un femminismo sempre più pop e seriale che interessa oggetti e marchi di ogni tipo, magicamente tinti di rosa per celebrare questa o quella (nobile) causa della questione femminista fino a toccare qualsiasi sfaccettatura della discriminazione di genere. Se molti di questi prodotti finali risultano affascinanti, la logica che li muove è spesso tutt’altro che nobile e giusta. Questo fenomeno dalle mille sfumature, dagli intenti opachi e i retroscena oscuri prende il nome di pinkwashing.

Cos’è il pinkwashing

Crasi delle parole “pink”, rosa, e “whitewashing", imbiancare o nascondere, il termine allude a una pratica di marketing, tutt’altro che genuina, di sposare una causa femminista nella promozione di un prodotto con lo scopo di “comprare” l’interesse dei consumatori più attenti alle tematiche sociali e aumentare le proprie vendite.

Una sorta di captatio benevolentiae orientata alla logica del profitto e al desiderio di nobilitare la propria immagine e brand reputation, distogliendo spesso l’attenzione da questioni e dinamiche eticamente discutibili, coperte, appunto, da una ipocrita “pennellata” di rosa ad effetto.

Il termine allude a una pratica di marketing, tutt’altro che genuina, di sposare una causa femminista nella promozione di un prodotto con lo scopo di “comprare” l’interesse dei consumatori

Come nasce il pinkwashing

Il termine nasce sulla scia del greenwashing, fenomeno simile negli intenti che ha per oggetto una finta sensibilità nei confronti delle tematiche ambientaliste, sempre allo scopo di ottenere un ritorno economico e di immagine.

Fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld a coniare la parola “greenwashing” nel 1986, per alludere alla pratica adottata da alcune catene alberghiere di invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani facendo leva sulla finta motivazione dell’impatto ambientale del lavaggio della biancheria, quando risultava evidente che alla base dell’operazione ci fosse un intento puramente economico.

All’inizio degli anni Duemila, il termine è stato preso in prestito e adattato a una questione tutt’altro che irrilevante riguardante l’universo femminile: la lotta al cancro al seno.

È più precisamente la Breast Cancer Association, nella figura di un suo membro storico, Barbara Brenner, a coniare il termine “pinkwashing”, per smascherare campagne pubblicitarie e azioni di marketing di alcuni brand, soprattutto di cosmetica, che approfittavano della nobile tematica per indurre i consumatori a preferire i loro prodotti, allo scopo di ottenere maggiori guadagni e distogliere l’attenzione dalla scarsa qualità degli ingredienti utilizzati.

Fu la Breast Cancer Association, nella figura di un suo membro storico, Barbara Brenner, a coniare il termine “pinkwashing” per smascherare le campagne pubblicitarie e le azioni di marketing di alcuni brand

A suscitare tale preferenza nei consumatori doveva essere un piccolo fiocchetto rosa applicato ai vari prodotti, assurto a simbolo della lotta al tumore al seno, inaugurando così la pink ribbon culture, che fu però all’origine un’operazione di appropriazione indebita sempre a scopi di marketing e di lievitazione del fatturato, come spieghiamo qui di seguito.

Fu Charlotte Haley, una signora americana colpita dal cancro al seno, nel 1991 a scegliere di fatto questo simbolo: iniziò a cucire piccoli fiocchi color pesca a cui allegava una cartolina per denunciare i pochi fondi destinati dal governo alla lotta contro la malattia, che poi distribuiva ai negozi locali. L’iniziativa fu apprezzata da un noto brand di cosmetica, che si offrì di acquistare i suoi fiocchi. La donna, che comprese il reale intento dietro alla mossa, si rifiutò. La cosa non impedì ai potenziali investitori di prenderne l’idea, modificando il colore dei fiocchi da pesca a rosa, e di dare origine alla cultura, tuttora in voga e non sempre animata da intenti poco trasparenti, del fiocco rosa associato alla lotta contro il cancro al seno.

È in quest’ottica che all'epoca Barbara Brenner coniò il termine pinkwashing, ideando anche una campagna dal nome di “Think before you pink”, per indurre i consumatori ad approcciarsi in modo più critico e consapevole a queste operazioni e le aziende a garantire maggiore trasparenza e responsabilità sulla questione.

Barbara Brenner ideò anche una campagna dal nome di “Think before you pink”, per indurre i consumatori ad approcciarsi in modo più critico e consapevole verso queste operazioni di marketing

Il pinkwashing oggi

Il fenomeno del pinkwashing è a oggi parecchio diffuso, perlopiù tra colossi e aziende di caratura internazionale, spesso appartenenti al mondo della produzione fast e del mercato mainstream. I temi che approccia sono differenti e tutti attinenti alla questione femminista, in particolar modo al tema dell’emancipazione femminile.

Uno dei più diffusi riguarda il cosiddetto commodity feminism, una sorta di femminismo di facciata, in cui brand e aziende di vari settori sposano solo superficialmente valori cardine del femminismo e della body positivity, per poi nei fatti promuovere standard di bellezza omologati e confermare i soliti stereotipi di genere.

Spesso il termine pinkwashing è stato e viene tuttora utilizzato anche in casi che hanno per protagonista la comunità LGBTQ+, sebbene sia stato coniato un termine ad hoc: rainbow washing, con riferimento ai colori dell’arcobaleno della bandiera che rappresenta le molte anime della comunità.

Spesso il pinkwashing viene utilizzato anche in casi che hanno per protagonista la comunità LGBTQ+, sebbene sia stato coniato un termine ad hoc: rainbow washing

Pinkwashing e rainbow washing

Come anticipato, per rainbow washing intendiamo una declinazione del pinkwashing, orientata a sfruttare per scopi commerciali e intenti di brand reputation la vicinanza e l’appoggio alle comunità LGBTQ+, mostrando una versione di sé più aperta e inclusiva al fine di accattivarsi una certa fascia di pubblico, ottenerne il consenso e spingerlo all’acquisto.

Questi episodi riguardano moltissime realtà e toccano un’infinita varietà di tipologie merceologiche, dall’abbigliamento, alla cosmesi, al settore dell’arredamento e dell’alimentazione, e toccano l’apice nel mese di giugno, in cui si celebra ormai da anni il Pride, per commemorare i moti di Stonewall avvenuti a New York nel 1969 e momento di svolta nella lotta per i diritti civili.

In molti di queste manifestazioni di rainbowwashing, però, la veste gay-friendly sfacciatamente proposta non corrisponde di fatto a un concreto impegno con azioni tangibili a supporto dei diritti della comunità LGBTQ+ nella lotta alle discriminazioni e alle violenze di natura omotransfobica. Ne è la prova il fatto che con il finire di giugno, anche la comunicazione marketing cambia veste, dimenticando nella maggior parte dei casi quell’arcobaleno tanto sponsorizzato nel mese simbolo.

Casi celebri di pinkwashing

Uno dei casi che più ha fatto discutere è stato quello della famosa catena americana di pollo fritto, che nel 2010 ha annunciato una partnership con un’importante associazione dedicata alla lotta contro il cancro al seno. Il brand americano aveva tinto di rosa, letteralmente, per l’occasione i suoi iconici cestelli per sposare la nobile causa, arrivando a raccogliere 4 milioni di dollari da devolvere all’associazione.
Peccato che l’azienda avesse già dal principio fatto questa donazione, gesto che ha reso ancor più evidente quanto la mossa fosse più strategica e commerciale che non di reale impegno. Lo scopo, ancora una volta, oltre ad aumentare i guadagni, era quello di travestirsi da brand attento e sensibile a certe tematiche. Un gesto assai “coraggioso” per un brand che promuove un tutt’altro che salutare tipo di cibo, il junk food.

Anni dopo è successo anche con un illustre marchio di abbigliamento svedese che ha prodotto e realizzato una serie di magliette con la (abusatissima) scritta “We Should All Be Feminists” (“Tutti dovremmo essere femministi”), dimenticando forse che quelle stesse magliette fossero state realizzate in Asia da dipendenti che lavorano in condizioni di sfruttamento.

un illustre marchio di abbigliamento svedese ha prodotto una serie di magliette con la scritta “We Should All Be Feminists”, dimenticando che quelle stesse magliette erano state realizzate in Asia da dipendenti che lavorano in condizioni di sfruttamento

Un altro caso recente di pinkwashing risale al 2018. Anche questa volta ad essere protagonista è un colosso della moda low cost, che in vista del mese del Pride, ha realizzato una collezione battezzata proprio con quel nome, annunciando che il ricavato sarebbe andato all’associazione britannica paladina dei diritti LGBTQ+ dal nome Stonewall. Questo nonostante i capi fossero prodotti in alcuni Paesi, tra cui Turchia e Myanmar, in cui i diritti della comunità LGBTQ+ sono da sempre calpestati e violati. Inoltre l’associazione non figurava tra gli organizzatori del Pride, né avrebbe partecipato alla parata quell’anno, pertanto risultò palese che l’intento reale del brand fosse quello di sfruttare un nome noto ai più per la propria immagine, quando avrebbe potuto manifestare vicinanza alla causa devolvendo i proventi ad associazioni locali di minore entità e fama.

Pinkwashing e politica: il caso Israele

Il fenomeno del greenwashing, del pinkwashing e del rainbow washing non tocca però solo grandi nomi, brand e aziende del mercato internazionale, ma anche la politica. In questo caso risulta evidente quanto lo scopo sia prettamente ideologico, per mettere in atto una vera e propria ripulita della propria brand reputation, nella maggior parte dei casi per distogliere l’attenzione da dinamiche e posizioni più che discutibili. Una sorta di dirottamento ideologico per ottenere consensi, sperando di fare cadere nel dimenticatoio questioni spesso contrarie a quanto sostenuto.

Un caso emblematico è la strada presa in questo senso dallo Stato di Israele, che negli ultimi anni ha ufficialmente operato una visibile svolta gay friendly, battendosi per una concreta apertura nei confronti della comunità LGBTQ+. Una posizione nobile al primo impatto, specie se considerata l’area geografica in cui si trova, il Medio Oriente, terreno tutt’altro che aperto e sensibile alla questione, ma che a ben guardare stride con la situazione conflittuale che da anni vive nel Paese, con due popoli contrapposti e in perenne situazione di lotta.

Come difendersi dal pinkwashing

Rispetto al passato, bisogna ammettere che oggi il mondo social e la credibilità di alcuni influencer costituiscano una sorta di anticorpi naturali al dilagare di queste manifestazioni, almeno nella maggior parte dei casi. Autorevoli personalità competenti in materia, dal green a tematiche femministe e di genere, divenuti influencer seguitissimi ci aiutano a tenere alta la guardia e soprattutto rappresentano delle fonti sicure di informazione.

Allo stesso tempo, le aziende e i grandi brand sono inevitabilmente più consapevoli e attenti a commettere passi falsi, perché sanno di essere sotto una grande lente social che può ritorcersi contro come un potente boomerang.

Dal canto suo, il consumatore può iniziare a sviluppare una coscienza critica, lasciarsi guidare da esperti e contenuti autorevoli per muoversi con maggiore consapevolezza nel mondo degli acquisti e verificare intenti e dichiarazioni di brand e colossi dalle facili e persuasive comunicazioni.

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