A che punto è la rappresentazione della comunità LGBTQIA+ sul piccolo schermo?
Da più di quindici anni, l’associazione no-profit GLAAD (Gay & Lesbian Alliance Against Defamation) analizza la rappresentazione delle persone gay, lesbiche, bisessuali, trans e queer nelle serie TV statunitensi. Secondo l’ultimo report Where We Are on TV 2021-2022, l’11,9% dei personaggi regolari nelle serie tv andate in onda in prima sera appartiene alla comunità LGBTQIA+: un numero che a prima vista può non sorprendere molto, ma che in realtà è il più alto di sempre.
A questo record si aggiungono una lunga serie di piccole vittorie: per la prima volta dal 2005 a oggi le donne lesbiche rappresentano il 40% dei personaggi LGBTQIA+ sul piccolo schermo, mentre cresce di molto anche la rappresentazione dei personaggi bisessuali e delle persone trans sul piccolo schermo.
Ma come spiegare questo netto miglioramento nella rappresentazione di personaggi queer?
L'industria audiovisiva è legata al mercato. Non ci sono broadcaster inerentemente buoni o cattivi, ci sono persone che portano al lavoro un determinato tipo di valori. Questi possono venire incontrati, o meno, da una determinata logica commerciale, che ha le sue ragioni
spiega la critica televisiva Marina Pierri, autrice del libro Eroine. Come i personaggi delle serie TV possono aiutarci a fiorire (Tlon).
Per spiegare l’aumento del numero di relazioni saffiche in TV, Pierri quindi suggerisce varie ipotesi: «Una è che alcuni focus group abbiano individuato una maggiore richiesta; un'altra è quella più imprevedibile, il caos. Congiunture positive. Soggetti che funzionano e hanno fast track per la produzione. Possibile maggiore presenza di persone saffiche e lesbiche nell'industria stessa, che comincia a mostrare dei timidi cambiamenti».
Più personaggi, scritti meglio
Il report di GLAAD non si limita però solo all’aspetto puramente quantitativo, ma suggerisce anche una serie di riflessioni sulla qualità dei personaggi e delle relazioni che intrattengono tra di loro.
È il caso del superamento di certi stereotipi o cattive pratiche che la stessa comunità LGBTQIA+ denuncia da tempo, come lo stereotipo “Bury Your Gays” o la scelta di scritturare attori e attrici trans per impersonare personaggi trans.
Bury Your Gays è un tropo narrativo, ovvero un archetipo che viene rappresentato sempre allo stesso modo, fino a che l'abuso e la ripetizione lo solidificano in stereotipo. La morte di una compagna queer è stata vista e rivista, ma ha alla base un ragionamento - consapevole e inconsapevole - molto preciso
Spiega Pierri. «Se una relazione queer finisce male, allora il messaggio che agisce per accumulo è che se si è lesbiche, si è destinata al disastro, al dolore, alla perdita. Ho molta fiducia nella capacità delle persone che guardano di elaborare messaggi come questo, e non stupisce che oggi il tropo sia pesantemente rifiutato», aggiunge. Perché, in fondo, la rappresentazione non è mai innocente: è un dispositivo di mantenimento dello status quo, talvolta della sua rottura.
Per quanto riguarda invece la corretta rappresentazione dei personaggi trans nei prodotti televisivi, il report indica che lo scorso anno 41 personaggi su 42 sono stati portati in scena da attrici e attori trans. Un grande passo avanti arrivato non solo in seguito alle rivendicazioni di Laverne Cox (Orange in the new black), Jamie Clayton (Sense8) e Hunter Schafer (Euphoria), ma anche al successo della serie TV Pose.
Una serie come Pose ha certamente "aperto" l'industria, ma una rondine non fa primavera e il problema è sempre molto più ampio. Il risultato è buono, ma non dobbiamo fermarci alla mera presenza sullo schermo
precisa Pierri. «L'obiettivo non è soltanto avere nelle fila dell'industria persone cis che scrivono persone trans, cosa che a oggi può accadere e accade, è avere persone trans in qualità produttive, decisionali, creative anche dietro la telecamera. Per questo è necessario ripensare anche la semplicità di accesso alla formazione e alle regole aziendali di ingaggio».
Netflix, rappresentazione e rainbow washing
Dalla sezione del report dedicata alle piattaforme di streaming emerge infine la conferma di un sospetto che il pubblico ha da tempo: Netflix è la piattaforma dove i personaggi LGBTQIA+ sono più presenti, seguita solo da Hbo Max e Amazon Prime Video.
Nonostante questo piccolo primato, non è raro infatti che i prodotti di Netflix vengano accolti da accuse di rainbow washing, ovvero di sfruttare l’interesse di una certa parte degli spettatori e delle spettatrici verso i diritti delle persone queer per aumentare consenso e profitti.
L’economia è il punto di partenza per ogni tipo di ragionamento di rappresentazione
ricorda Pierri. «Se penso a Netflix, la logica ufficiale è proprio quella di favorire la rappresentazione della comunità queer, quindi un certo numero di executive, ossia persone in qualità decisionale, riescono a dare più spesso il semaforo verde a un certo tipo di storie per la tv. Altrove può essere più complicato», spiega la critica televisiva.
«Detto questo, difficile dire quanto di vero e quanto di falso ci sia, appunto, in una logica commerciale come quella di Netflix: dipende sempre da chi ci lavora. Non è un logo a decretare questo o quello.
Ci sono, invece, persone che si battono con convinzione; altre che non hanno a cuore la comunità queer e si attengono a degli slogan. Suppongo questo succede un po' ovunque, in vari ambiti