Jeanne-Antoinette Poisson, marchesa di Pompadour, meglio nota come Madame de Pompadour

Rosa: la storia di un colore che non dovrebbe minare la mascolinità


Il colore rosa è capace di scoprire e cogliere sul fatto stereotipi di genere che credevamo sepolti, come dimostra un fatto recente di cronaca. Eppure, storicamente il rosa non è sempre stato legato all'immaginario femminile. Ecco com'è cambiata la sua percezione nel corso dei secoli
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Soltanto la scorsa settimana, il Sindacato Autonomo di Polizia (SAP) inviava una lettera al capo della polizia Lamberto Giannini per protestare contro il colore delle mascherine FFP2 fornite agli agenti di alcune questure.

Il problema, ha segnalato il SAP, sarebbe che le mascherine sono rosa e, per questo, non “consone” alla divisa. Il colore rosa sarebbe indecoroso per un poliziotto e toglierebbe autorevolezza, a differenza di altri colori come il bianco, l’azzurro, blu o il nero. E se a smentire il Sindacato di Polizia fosse proprio la Storia?

E se a smentire il Sindacato di Polizia fosse proprio la Storia?

Quello dei colori attribuiti in modo automatico a uomini e donne è uno degli stereotipi più radicati e scontati riguardo la differenza di genere. In realtà, l’associazione tra il rosa e il femminile avviene solo in epoche piuttosto recenti e, soprattutto, per una scelta arbitraria: il rosa, infatti, è rimasto per secoli un colore assessuato. Il mondo non nasce “genderizzato” e, la divisione binaria dei generi maschile e femminile, è creata dalla nostra stessa società che ne difende la legittimità perché "si è sempre fatto così". E se scoprissimo che, invece, non si è sempre fatto così?

Il colore rosa nel tempo, quando non conosceva genere

Il rosa è diventato un colore alla moda nella metà del 1700: veniva indossato liberamente sia da uomini che da donne ed è stato reso famoso dalla donna più potente del XVIII secolo, Madame de Pompadour. Per lei, l’azienda di porcellane di Sèvres creò una specifica tonalità di rosa chiamata, appunto, “Rosa Pompadour”. Nell’epoca di Pompadour, il rosa era un colore svincolato da qualsiasi attribuzione di genere: alla nascita, bambini e bambine venivano vestiti di bianco e, anzi, il rosa era maggiormente associato ai ragazzi perché considerato una tonalità più chiara del colore rosso, correlato ai guerrieri, agli eroi e ai combattimenti.

Anche nel 1918, Earnshaw’s Infants’ Departmentrivista specializzata in vestiti per bambini, ribalta lo stereotipo attuale specificando che:

la regola comunemente accettata è che il rosa sia per i bambini, il blu per le bambine. Questo perché il rosa è un colore più forte e deciso, più adatto ad un maschio, mentre il blu, che è più delicato e grazioso, è più adatto alle femmine

Le cose cambiano tra gli anni Trenta e Quaranta: gli uomini iniziano a vestire con colori sempre più scuri, associati al mondo degli affari, per distinguersi dalle tinte chiare percepite come più femminili e legate alla sfera domestica. Il rosa veniva ora associato alla nudità, perché ricordava il colore della pelle e, in particolare, del corpo femminile: quello delle donne caucasiche, il modello di bellezza occidentale.

Per questo motivo, l’abbigliamento di bambini e bambine comincia ad essere differenziato in età sempre più giovane: a invigorirne le cause, anche la crescente diffusione delle teorie di Freud legate alla sessualità e alla distinzione di genere. Alcuni genitori usavano il rosa per le bambine e l’azzurro per i bambini, ma questa distinzione non era così diffusa come lo è ora. Per diversi decenni, quindi, il colore rosa ha continuato a sfidare il consenso.

Nella Germania nazista, i detenuti dei campi di concentramento accusati di essere “criminali sessuali” – uomini queer, donne trans e omosessuali considerati “maschi effeminati” - venivano contrassegnati con un triangolo rosa: una scelta che racconta chiaramente il valore morale del rosa in quel periodo, nonostante l’uso del triangolo rosa da parte dei nazisti sia diventato di dominio pubblico solo alla fine degli anni ’70.

Il rosa viene identificato definitivamente con le donne negli anni ’50, diventando pervasivo e onnipresente non solo nell’abbigliamento femminile, ma anche nei beni di consumo, negli elettrodomestici e nelle automobili. La bambola Barbie è stata introdotta nel mercato proprio in quegli anni, consolidando la femminizzazione del rosa.

La bambola Barbie è stata introdotta nel mercato proprio in quegli anni, consolidando la femminizzazione del rosa

A ribaltare la prospettiva e mettere in discussione dei ruoli tradizionali di genere, fu il movimento femminista degli anni ’70: le donne adottano stili più neutri e privi di dettagli riconducibili al sesso, criticando la correlazione tra il colore rosa e la sfera infantile. Dal ribaltamento della prospettiva, alla sua riappropriazione: il rosa, rivendicato dalla comunità LGBTQIA+, diventa il simbolo del potere femminile. Non a caso, è la tinta predominante dei “pussyhats”: i berretti in lana fucsia delle marce delle donne.

Marcia delle donne a Washington, in opposizione all'insediamento di Trump
Marcia delle donne a Washington, in opposizione all'insediamento di Trump

Ribaltare la prospettiva: gli stereotipi di genere riguardano uomini e donne

Modificare la percezione che abbiamo del mondo, specie quando ogni cosa è codificata in base a rigide norme di genere, non è facile: ma il rosa non è nato donna, lo è diventato. È la società a decidere cosa significano i colori. Oggi il rosa viene descritto come un colore “delicato, femminile e frivolo”. I francesi del 1700, invece, lo avrebbero definito “elegante, forte, potente”. Il caso del Sindacato Autonomo di Polizia che si schiera contro le mascherine rosa, dunque, è l’emblema di un fatto evidente: gli stereotipi di genere riguardano anche gli uomini e, abbatterli, è una battaglia che li chiama all’appello in prima persona.

Ancora oggi un poliziotto con la mascherina rosa può essere considerato “meno maschile” - e quindi “meno autorevole” -  perché l’autorevolezza è una caratteristica tutt'ora maggiormente attribuita agli uomini.  Allo stesso modo, unna donna che vuole essere definita “più autorevole”, è quasi sempre costretta ad arginare la sua femminilità. Non è il rosa a minare la mascolinità, ma gli stereotipi di genere ad esso associati.

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A “battere un colpo” importante in questa direzione In Italia, ad esempio, ci ha pensato un’istituzione importante come l’Istat: a febbraio 2021, nell’annuale classifica dei nomi più diffusi, ha infatti scelto di indicare i nomi maschili in verde e i femminili in arancione. Una svolta che ha a che fare con il concetto di “data visualisation” in cui l’attribuzione del rosa alle bambine e dell’azzurro ai bambini è uno stereotipo comune. Con la stessa logica, la “soluzione” al caso delle mascherine rosa non è quella di non indossarle - come dimostrano diversi uomini splendidi in rosa - ma di “utilizzarle” come pretesto ideale per allargare la battaglia per la parità di genere: un obiettivo comune a uomini e donne affinché la libertà di indossare quello che si desidera, senza sentirsi meno autorevoli o rispettabili, sia un diritto garantito.

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