Violenza ostetrica: cos’è e perché (finalmente) se ne parla
Da sempre il parto viene considerato un momento della vita femminile associato a un fenomeno naturale e miracoloso insieme. Ciò che sembra essere certo, insieme a questa concezione, è la naturale sofferenza cui le donne sono sottoposte in questa circostanza.
Da stereotipi culturali a motivazioni ideologiche e religiose, nel tempo si è infatti sempre più consolidata l’idea che fosse legittimo, tollerabile e normale che ogni donna sperimentasse il dolore in questo momento della sua esistenza. In questa idea, solo apparentemente innocua, risiede però l’origine di un certo atteggiamento che ha anteposto e privilegiato il fine allo “strumento”, ossia al corpo, la salute e la dignità della donna, portando alla formazione di un sistema spesso lesivo e irrispettoso delle esigenze e dei bisogni delle donne.
Solo negli ultimi anni, una sempre maggiore consapevolezza del ruolo e della dignità della donna nel mondo e nella società ha portato a rivedere il modo di approcciare e vivere questo intenso momento della vita femminile. E ciò che fino a qualche tempo fa veniva considerato legittimo, normale e accettabile è stato visto con parametri nuovi, che mettessero finalmente al centro prima di tutto la donna e la sua salute. Ecco perché oggi, finalmente, si inizia a parlare di un fenomeno per troppo tempo tenuto nascosto e considerato tabù: la violenza ostetrica.
Che cos’è la violenza ostetrica
Con il termine violenza ostetrica si intende una serie di abusi fisici, verbali e psicologici subiti dalla donna nel corso della gravidanza e del parto, o più genericamente in situazioni ostetrico-ginecologiche non necessariamente legate al momento del travaglio.
Più nello specifico, rientrano nella categoria di violenza ostetrica una serie di manovre, procedure e interventi dolorosi e invasivi, non sempre necessari, spesso effettuati senza anestesia, senza il consenso informato o il rispetto della privacy della donna interessata.
La natura emergenziale e per così dire “violenta” tipica della condizione del travaglio e del parto ci ha da sempre, erroneamente, portato a considerare il dolore come un dato di fatto, naturale e inevitabile, in queste circostanze. Per moltissimo tempo, infatti, episodi oggi riconducibili a una vera e propria violenza ostetrica sono stati scambiati per una normale procedura e una normale conseguenza dell’esperienza del parto, considerato un trauma fisico temporaneo necessario e indispensabile per assicurare la continuità della specie.
Per dirla in modo ancora più chiaro, per anni ciò che accadeva in sala parto, immediatamente prima di assistere al grande miracolo della vita, era in qualche modo giustificabile e necessario, proprio in nome di quel fine superiore. Il fisico della donna in quel momento era prima di tutto uno strumento di vita e, come tale, non soggetto a particolare attenzione e sensibilità. Con il tempo, fortunatamente, ci si è resi conto che il corpo femminile, chiamato in quel momento a farsi manifestazione di un fine ultimo più nobile, non smetteva - anche in quel momento - di avere diritto a un rispetto totale della propria integrità, salute e dignità.
È proprio da qui che nasce il concetto di violenza ostetrica, considerata come una vera violazione del diritto alla salute e all’integrità del corpo della donna, e da considerarsi a tutti gli effetti come una violenza di genere.
Sono molteplici le procedure ostetrico-ginecologiche etichettabili sotto il nome di violenza ostetrica e nella maggior parte delle volte erroneamente considerate delle normali e legittime procedure, cui viene sottoposta una partoriente in fase di travaglio e parto.
Tra le più frequenti vi è senza dubbio il ricorso a episiotomie – il taglio chirurgico effettuato per allargare l’orifizio vaginale – nella maggior parte delle volte eseguite senza avvertire la donna o senza anestesia.
Anche il ricorso a cesarei non necessari, o iniziati prima che l’anestesia abbia fatto effetto o ritardati per insistere col parto vaginale rappresentano altre violente manifestazioni di questo fenomeno.
Per non parlare di epidurali negate o, al contrario, indotte nonostante il rifiuto della partoriente, induzioni farmacologiche del travaglio con ossitocina (la cosiddetta manovra di Valsalva), fino alla manovra di Kristeller, procedura sconsigliata persino dall’OMS, che consiste nell’applicare una spinta nella parte bassa dell’utero della donna per facilitare l’espulsione del feto.
Rientra poi nel concetto di violenza ostetrica anche forzare la partoriente ad assumere la posizione standard durante il travaglio invece di permetterle di scegliere quella che preferisce, per assecondare il più possibile la fisiologia del parto e renderlo il meno doloroso possibile. Perché il nocciolo della questione risiede proprio in questa frase: il “meno doloroso possibile”. Anche in un’esperienza traumatica e dolorosa come quella del parto, ciò che si deve assicurare alla donna è il minor dolore possibile.
Oltre a queste pratiche di carattere fisico, il concetto di violenza ostetrica comprende anche una serie di atteggiamenti violenti apparentemente meno invasivi, perché di natura non fisica, ma più subdoli e altrettanto significativi: abusi verbali, frasi offensive, insulti e umiliazioni – riscontrate soprattutto nei confronti di donne appartenenti a minoranze – oltre ad atteggiamenti irrispettosi con notevoli ripercussioni psicologiche sulla partoriente, come il divieto di avere con sé in sala una persona di fiducia o vivere situazioni invasive e intime in una totale mancanza di riservatezza.
Come anticipato, infatti, gli episodi di violenza ostetrica possono verificarsi non necessariamente nell’ambito emergenziale del parto e del travaglio, ma anche più in generale in normali condizioni ostetrico-ginecologiche: ad esempio fanno parte della violenza ostetrica anche subire una visita vaginale davanti a sconosciuti, tra cui i mariti delle altre partorienti presenti nella stessa stanza - senza quindi che vi sia una tenda o un divisore tra i due letti - o il non ricevere il tipo di assistenza adeguata, come non fornire una sedia a rotelle per agevolare il cammino della partoriente in travaglio.
I numeri della violenza ostetrica in Italia
Per dare voce alla questione è stato fondamentale il lavoro e l’impegno di attiviste e associazioni che hanno contribuito in modo importante a sensibilizzare l’opinione pubblica e a rendere visibile un fenomeno sommerso, negato e tenuto per troppo tempo dentro le mura di cliniche e ospedali.
Ed è proprio grazie all’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica (OVOItalia), nato nel 2017 a seguito della campagna social dal titolo #bastatacere, lanciata dalle attiviste Elena Skoko e Alessandra Battisti, se oggi riusciamo a disporre di un quadro più chiaro e di dati precisi sulla situazione odierna del fenomeno nel nostro Paese.
L’Osservatorio ha infatti commissionato all’azienda di ricerche di mercato Doxa la prima e unica indagine statistica sulla violenza ostetrica dal nome “Le donne e il parto”, che ha permesso di ottenere dati significativi su un campione di 5 milioni di donne nel periodo di tempo compreso tra il 2003 e il 2017.
Dall’indagine emerge che il 21% delle donne interpellate ha subito violenza ostetrica: circa un milione di donne. Inoltre, lo studio rivela che 4 donne su 10, ossia il 41%, considerano l’assistenza al parto ricevuta lesiva della loro dignità e integrità psicofisica.
Tra le pratiche più diffuse vi è senza dubbio l’episiotomia, che la stessa OMS definisce “una pratica dannosa, tranne in rari casi”.
Questa pratica, infatti, è stata subita da oltre la metà delle donne intervistate (il 54%). Ma c’è di più: il 61% di quelle che hanno subito un’episiotomia nel periodo di tempo preso in esame - e cioè 1,6 milioni di donne in totale - ha dichiarato di non aver dato il consenso informato per autorizzare l’intervento.
Anche il Cedap del 2018 (Certificato di assistenza al parto), un rapporto pubblicato periodicamente dal Ministero della Salute, attesta un’eccessiva medicalizzazione dei parti negli ultimi decenni. Stando al documento, infatti, i tagli cesarei sono passati dal 10% dei primi anni Ottanta al 32,3%, sebbene la stessa raccomandazione dell’OMS sia quella di mantenerli tra il 10% e il 15%.
Mentre un altro dato dimostra il bassissimo impiego dell’analgesia epidurale: nel 2018, infatti, gli anestesisti erano presenti solo nel 42,15% dei parti.
Questa situazione presenta ripercussioni non solo di natura fisica, ma anche di carattere psicologico: si pensi infatti che, stando all’indagine avviata dall’Osservatorio, il 6% delle donne intervistate ha dichiarato di non volere più figli dopo l’esperienza traumatica vissuta, mentre molte hanno rivelato di non riuscire ad allattare dopo un parto cruento.
La violenza ostetrica sul piano legislativo in Italia e nel mondo
Il primo riconoscimento ufficiale e giuridico della violenza ostetrica risale al 2007, grazie a una legge del governo venezuelano, che inserisce la violenza ostetrica all’interno della violenza contro le donne, definendola con questi termini: “Appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali avendo come conseguenza la perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita della donna”.
La legittimazione giuridica e sociale del fenomeno ha quindi avuto inizio nei Paesi dell’America latina, tanto che dopo il Venezuela, sono stati Argentina e Messico a codificarla nelle proprie legislazioni, ma successivamente il fenomeno ha occupato un importante spazio nel dibattito internazionale, grazie a una sempre maggiore sensibilizzazione del tema, anche ad opera di un impegno concreto di attiviste e associazioni femministe in favore della tutela della donna e della sua salute fisica e psichica.
Al fianco del lavoro sul campo di attiviste e associazioni, che specie nel nostro Paese si è rivelato determinante, è stato fondamentale il ruolo ricoperto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha iniziato ad affrontare il tema con sempre maggiore impegno e sensibilità, definendo linee guida e raccomandazioni indirizzate ai Paesi della comunità internazionale in nome della tutela e del rispetto dei diritti umani. Proprio nel 2014 l’OMS ha infatti pubblicato una Dichiarazione per la prevenzione e l’eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere, all’interno della quale vengono elencati i vari tipi di trattamenti considerati “irrispettosi e abusanti”, cui sono sottoposte molte donne durante il parto.
Nel 2019, seguendo l’approccio già presente nella legge venezuelana, un rapporto delle Nazioni Unite ha esplicitamente collegato il fenomeno della violenza ostetrica all’interno della violenza e discriminazione di genere.
La situazione in Italia non è purtroppo rosea dal punto di vista legislativo, sebbene negli ultimi anni il lavoro delle attiviste e le testimonianze sempre più “pubbliche” delle protagoniste abbiano sensibilizzato in maniera importante il fenomeno, rendendolo visibile e riconoscibile alle donne stesse, spesso inconsapevoli di esserne vittime.
Una proposta legislativa, poi di fatto mai arrivata in senato e mai tradotta in legge, è stata avanzata nel maggio 2016 dal deputato di Articolo Uno, Adriano Zaccagnini, dal nome: “Norme per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico”. In Italia, quindi, stiamo ancora aspettando un decreto legge sul tema.
Le cause della violenza ostetrica
Come accennato in precedenza, all’origine del fenomeno vi è senza dubbio una pesante eredità dell’ideologia patriarcale, che negli anni ha consolidato sempre più stereotipi socio-culturali, responsabili principali delle discriminazioni di genere tuttora vigenti in moltissimi ambiti della società.
Motivazioni culturali, che trovano ulteriore conferma e fondamento in argomentazioni ideologiche e di carattere religioso sarebbero quindi alla base di una certa tendenza a legittimare e accettare l’idea della sofferenza femminile durante l’esperienza del parto. Accanto a questa, del resto, è sempre stata diffusa e promossa l’immagine di una donna martire, disposta a sacrificarsi per il bene e in nome del proprio figlio. Una situazione, iconograficamente avvallata da una forte cultura cristiana, che ha però posto le basi per un approccio poco sensibile e rispettoso dell’integrità e della dignità della figura della donna, da sempre intesa più come madre e portatrice di vita, che come essere umano.
Sarebbe quindi prima di tutto da ricercarsi qui l’origine ideologica e sociologica che ha portato nel tempo operatori sanitari e specialisti del settore a compiere e legittimare atteggiamenti non sempre rispettosi e spesso portati a svalutare la salute fisica ed emotiva delle partorienti.
Ma del resto, una simile situazione è da riscontrarsi anche nell’ambito di un altro aspetto tipico della vita femminile: le mestruazioni. Per ragioni affini, infatti, si è sempre stati portati a ritenere legittima e naturale la sofferenza delle donne durante il ciclo mestruale, e solo negli ultimi anni una cultura ben più consapevole e inclusiva ha sviluppato una sempre maggiore sensibilità riguardo al tema, ribadendo, soprattutto alle giovanissime, il loro diritto di vivere il proprio ciclo mestruale nel rispetto della propria salute e serenità fisica e psicologica.
Oltre a questo, all’origine della violenza ostetrica vi sono anche motivazioni di carattere medico e organizzativo, dettate da condizioni di lavoro non ottimali, tra cui mancanza di personale, afflusso di pazienti, mancanza di infrastrutture adeguate e turni lunghissimi ed estenuanti, che hanno facilitato un approccio meno sensibile e rispettoso della salute e della dignità della donna.