Cos’è e come si riconosce la violenza psicologica: parla Cinzia Marroccoli di Telefono Donna
Quando si parla di violenza sulle donne un livido, un taglio o un labbro spaccato sono segni inequivocabili che qualcosa non va. Manifestazioni fisiche ed evidenti di qualcosa di profondamente sbagliato e pericoloso che balzano agli occhi immediatamente, e anche quelle che quasi sempre spingono la donna che le subisce a chiedere aiuto. C’è però un’altra forma di violenza, più sottile e subdola, che spesso è il prodromo di quella fisica e che viene riconosciuta con più difficoltà sia dall’esterno sia dalla donna stessa: la violenza psicologica.
Di violenza psicologica si è iniziato a parlare in maniera più frequente e diffusa soltanto negli ultimi anni, via via che l’attenzione verso i modi in cui un partner può diventare violento è cresciuta ed è aumentata la sensibilità in una società di stampo prettamente patriarcale, che ha sempre ritenuto usuale che l’uomo potesse rivolgersi alla donna in modo brusco o denigratorio.
Una società in cui è stato per troppo tempo considerato normale (e in certi casi lo è tutt’ora) che la donna dipenda dall’uomo da ogni punto di vista, e che sia lui a decretare cosa è giusto e sbagliato e a gestirne la vita. La violenza psicologica, però, è ormai considerata una violenza a tutti gli effetti, e ci sono degli indicatori che consentono di individuarla e distinguerla da quelle che possono essere liti o scontri concepibili e accettabili all’interno di una coppia.
Ce lo spiega la dottoressa Cinzia Marroccoli, psicologa, presidente dell’associazione Telefono Donna di Potena e consigliera nazionale della sezione della Basilicata di Di.Re - Donne in Rete contro la violenza: «La violenza psicologica è quella che viene prima della violenza fisica, perché è quella che costruisce poi la gabbia nella quale la donna viene intrappolata e per cui ha così difficoltà in seguito a denunciare la violenza fisica o a uscire da una situazione di violenza». Per questo è fondamentale sapere riconoscere gli indicatori della violenza psicologica, comportamenti specifici che si ritrovano nella maggior parte delle storie di violenza: «Sono delle costanti - conferma Marroccoli - Le storie di violenza hanno delle somiglianze per quanto riguarda l’escalation della violenza, e queste somiglianze sono date dagli indicatori».
La gelosia ossessiva
Il primo indicatore di violenza, quello che si riscontra maggiormente ed è molto spesso al centro dei primi racconti che la donna fa quando si rivolge a un centro anti violenza, è la gelosia. Quella gelosia malsana, ossessiva, che degenera poi nel desiderio di controllare la donna in ogni suo spostamento e in ogni aspetto della sua vita.
«Questa gelosia è qualcosa di subdolo - spiega ancora Marroccoli - perché come donne siamo portate a pensare che il partner geloso è quello che mi ama, viene spesso messa in relazione con l’amore e in senso positivo. Non viene colta subito come negativa, anzi. Però questo tipo di gelosia cambia presto, e da un’apparenza “normale” diventa ossessiva e degenera nel controllo. Alla base c’è l’idea del possesso: l’uomo vuole dimostrare che la donna è “roba sua”, e per farlo la controlla».
Si parte solitamente con il controllo del telefono, e poi il controllo dilaga in tutta la vita della donna, poco per volta, in maniera graduale. E proprio per questo pericolosa, perché non ci si arriva tutto in una volta, in modo scioccante, ma in modo più sottile: insinuazioni sulle uscite e sulle destinazioni, sulle persone che si incontrano e con cui si è in contatto, suggerimenti che poi diventano ordini a smettere di frequentare la palestra, l’ufficio, gli amici. E domande continue e sempre più pressanti sulle motivazione degli spostamenti, sui luoghi, sulle persone.
L’isolamento
Il secondo step è spesso l’isolamento: «L’uomo violento inizia a chiedere alla donna di non frequentare più determinate persone o luoghi, di smettere di vedere amici e parenti - riflette la dottoressa Marroccoli - Spesso insinua che quelle frequentazioni non vadano bene per la donna, che sono tossiche o negative, che la portano sulla cattiva strada, che quelle persone vogliono il suo male e che lui è l’unico davvero interessato, che la ama davvero. L’isolamento spesso si estende anche al lavoro, e molti uomini chiedono alla donna di non lavorare più perché "tanto ci sono io che posso mantenerti"».
Alla fine l’autonomia della donna è ridotta in modo talmente evidente che si ritrova sola, risucchiata nella relazione e pesantemente condizionata: «A un certo punto è lei stessa ad auto limitarsi, fa suoi i dettami e le convinzioni dell’uomo e inizia a rinunciare a ciò che lo indispone da sola. Isolandosi ancora di più»
Le umiliazioni
Con l’isolamento arrivano, quasi sempre, anche le umiliazioni: «Frasi come “non sai fare niente”, “non sei buona a nulla”, “non sei una buona moglie, o compagna o madre” diventano la regola - conferma Marroccoli - L’uomo inizia a minare tutte le sicurezze della donna, a demolirne la personalità e l’identità, e ad attaccarla su più fronti. Possono essere all’inizio cose banali, per esempio insinuazioni sul fatto che la donna non sappia cucinare. A quel punto può succedere che lei per farlo contento si iscriva a un corso di cucina per cucinare meglio, anche nel tentativo di compiacerlo ed evitare le umiliazioni. Però non serve a niente, perché l’uomo violento non sarà mai soddisfatto. Da lì si arriva a umiliazioni sempre più pesanti, e poi alle minacce.
Le minacce
La donna in questa fase è quasi sempre insicura, confusa, umiliata e spaventata, oltre che isolata e spesso senza risorse economiche o rete sociale intorno. Ed è qui che subentrano le minacce: "se non fai questo ti lascio", o "se non la smetti ti tolgo i figli", in alcuni casi l’uomo arriva a minacciare di uccidersi se è la donna a manifestare l’intenzione di lasciarlo, colpevolizzandola. O a minacciare di fare del male a lei o ai figli.
«Attraverso questi comportamenti arriviamo a una vera e propria manipolazione - conferma Marroccoli - l’uomo diventa l’unico punto di riferimento della donna. Che spesso quando arriva al centro anti violenza è talmente dentro a questo meccanismo da parlare quasi tramite bocca sua, con le parole dell’uomo. Capita di sentire donne che raccontano le cose dicendo “mio marito dice, mio marito pensa”. C’è uno spostamento del punto di vista e la perdita del proprio io nella donna vittima di violenza psicologica, che ha perso anche completamente la fiducia in se stessa e negli altri. È convinta che le toglieranno i figli perché non sarebbe in grado di mantenerli senza di lui, è convinta che si troverebbe sola, annientata. Non c’è più un “io”, ma c’è quello che pensa ed è “lui”».
La violenza fisica
A questo punto la donna spesso si ritrova piegata, ed è qui che la violenza psicologica può diventare fisica: «Si arriva a questa espropriazione del punto di vista della donna, e quando arriva il primo schiaffo spesso la donna non si stupisce né si ribella, ma quasi se lo aspetta - conclude la dottoressa Marroccoli - Perché pensa di meritarlo, pensa che è colpa sua perché è lei quella sbagliata, quella incapace di fare. Perché lei pensa di essere il nulla. E per uscire da una situazione di questo genere ci vuole molta consapevolezza e un profondo lavoro di riconquista della propria autonomia, della fiducia e del “sé”. Un percorso molto complesso, ma si può fare. La cosa fondamentale è fare il primo passo, capire che non si è sole né le uniche in quella situazione e rivolgersi a un centro antiviolenza».