Bella Ciao diventa l’inno delle donne afghane silenziate: «Dal ritorno dei talebani, cancellati i diritti umani»
Al silenzio imposto e all’inarrestabile perdita di diritti, le donne afghane hanno risposto cantando. E non una canzone qualsiasi, ma quella della Resistenza per antonomasia: “Bella Ciao”, intonata per sfidare il regime talebano che dal 2021 ha ripreso il potere in Afghanistan riducendole a poco più che oggetti di cui disporre liberamente attraverso leggi emanate ad hoc.
Bella Ciao, l'inno di resistenza delle donne afghane
Dopo quella approvata ad agosto, che tra le altre cose vieta alle donne di leggere ad alta voce, cantare e recitare in pubblico, online è partita una protesta che vede le donne registrare e condividere video mentre recitano poesie o cantano, filmati accompagnati da hashtag in cui rivendicano fieramente il diritto di farsi sentire: “La mia voce non è proibita”, e ancora “No ai talebani”. I video arrivano da ogni parte del mondo e sono registrati quasi tutti in dari o pashto, le lingue parlate in Afghanistan. E tra le canzoni più scelte (e condivise) c’è proprio “Bella Ciao”, cantata appunto in lingua pashtu.
La legge che mette al bando la voce delle donne (e non solo)
La protesta ha iniziato a diffondersi dopo l’emanazione della prima vera legge da parte del cosiddetto “Ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù”, creato nel 2021 per vigilare sul rispetto e l’applicazione della shariah, ovvero l’insieme dei principi etici e morali contenuti nei testi sacri. La legge è suddivisa in 35 articoli e vieta alle donne di mostrarsi a volto scoperto in pubblico e di indossare abiti corti o aderenti. Uno degli articoli riguarda il silenzio: non possono cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, perché secondo i talebani persino la voce di una donna è privata e intima, e non può quindi essere esposta in pubblico.
La nuova legge vieta inoltre alle donne di viaggiare prive di accompagnatori con cui hanno legami di sangue e in generale di incontrare uomini che non siano parenti. Un provvedimento che conferma in realtà alcune prescrizioni già in vigore, codificate ora in una vera e propria legge, ed erode ulteriormente i diritti delle donne afghane, inesorabilmente ridotti via via che i talebani hanno ripreso potere.
Come il regime talebano ha eroso i diritti delle donne afghane
Le tappe di questa erosione sono scandite dalle restrizioni sempre più pesanti imposte nel Paese, e questo nonostante la promessa che non sarebbero tornate quelle del primo regime. A dicembre 2021, poco più di quattro mesi dopo avere ripreso il potere (mantenuto dal 1996 al 2001) il regime talebano aveva vietato alle donne di percorrere più di 72 chilometri senza un accompagnatore maschio e di salire sui taxi senza velo. Avevano inoltre proibito alle reti televisive di trasmettere programmi in cui comparivano donne, e di conseguenza alle donne di recitare. Avevano chiuso il Ministero degli Affari femminili, istituito nel 2001, alla caduta del regime, proprio per garantire pari opportunità, e con il 2022 i divieti erano aumentati.
Il burqa, ovvero l’abito che copre integralmente volto e corpo lasciando solo una fessura o una retina per gli occhi, era stato imposto a maggio. Nei mesi successivi i talebani hanno prima vietato l’accesso alle scuole secondarie alle ragazze, poi le hanno direttamente chiuse. Hanno vietato loro di andare all’università, nei saloni di bellezza e dal parrucchiere.
Secondo quanto riportato da Save the Children, dall'agosto 2021 i nuclei familiari con a capo una donna stanno affrontando tassi più elevati di insicurezza alimentare e di lavoro minorile rispetto ai nuclei familiari con a capo un uomo, e attualmente nel Paese quasi un nucleo familiare su 3, formato da donne e ragazze, si affida a strategie di sostentamento "di emergenza". La popolazione si sente abbandonata, come sottolineano da Amnesty International.
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Amnesty: «La comunità internazionale ha abbandonato la popolazione afghana»
«Abbiamo parlato con persone che rappresentano settori diversi della società afgana in tutto il mondo, convinte in larghissima parte che la comunità internazionale abbia abbandonato la popolazione dell’Afghanistan - ha detti Samira Hamidi, campaigner di Amnesty International per l’Asia meridionale - non solo non ha chiamato i talebani a rispondere delle violazioni e dei crimini commessi ma non ha neanche saputo trovare una direzione strategica per impedire ulteriormente tutto questo».
Sempre Amnesty fa sapere che oltre 20 difensore dei diritti umani residenti in 21 province dell’Afghanistan hanno detto ad Amnesty International di aver perso autonomia in ogni aspetto della loro vita. In precedenza svolgevano attività professionali nel campo legale, politico, giornalistico, educativo e sportivo. Dopo tre anni di dominio dei talebani, la loro sensazione è di essere delle “non persone”, con limitate opportunità di lavorare e di dare il proprio contributo in ambito economico o culturale.
«Tre anni dopo il ritorno dei talebani al potere - ha detto Hamidi - la totale assenza di qualsiasi misura concreta per affrontare la catastrofe dei diritti umani in Afghanistan è fonte di vergogna per il mondo».