Biennale Arte: la curatrice Cecilia Alemani rimette al centro le artiste dimenticate
Recuperare il contributo femminile trascurato da una storia dell’arte bianca e occidentale è il filo rosso che attraversa il suo lavoro: più dell’80% degli artisti e delle artiste che partecipano partecipare alla Biennale è donna o appartenente a un genere non binario. Gli uomini, per la prima volta, sono in minoranza.
Ma, specifica Alemani, «non chiamatela la Biennale delle donne: per 125 anni non l'avete mai chiamata la Biennale degli uomini». I numeri parlano chiaro: 213 tra artiste e artisti da 58 paesi, 1433 opere e oggetti, 79 Padiglioni nazionali (esordiscono Camerun, Namibia, Nepal, Oman e Uganda, ma c'è la defezione della Russia) e la durata più lunga di sempre, oltre 7 mesi, dal 23 aprile al 27 novembre.
Riscrivere la storia dell’arte, spostandola dalla prospettiva maschile: a Venezia, tra i Giardini e l'Arsenale, si intrecciano al percorso principale cinque capsule del tempo:
non ho fatto delle scoperte, non volevo isolare le artiste, le ho riprese e messe insieme alle contemporanee che hanno influenzato
Il latte dei sogni: diventare altro da sé, il tema
Un viaggio che si concentra attorno a tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra. La Biennale di quest’anno è un percorso nello spazio e nel tempo che deve il suo titolo - Il latte dei sogni – a un libro di favole di Leonora Carrington, in cui l’artista surrealista descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e in cui è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé.
A chi le chiedesse quando fosse nata, Carrington rispondeva che era stata generata dall’incontro tra sua madre e una macchina, in una bizzarra comunione di umano, animale e meccanico che contraddistingue molte delle sue opere.
L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme a molte altre figure della trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano
Come spiega la curatrice Alemani, la mostra nasce proprio dalle numerose conversazioni intercorse con molte artiste e artisti, da cui sono emerse con insistenza molte domande che evocano non solo questo preciso momento storico, ma riassumono anche molte altre questioni che hanno dominato le scienze, le arti e i miti del nostro tempo.
Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi?
Questi sono alcuni degli interrogativi che fanno da guida a questa edizione della Biennale Arte e rispondono a uno sforzo creativo preciso: immaginare una condizione postumana, mettendo in discussione la visione moderna e occidentale dell’essere umano – in particolare la presunta idea universale di un soggetto bianco e maschio, “uomo della ragione” – come il centro dell’universo e come misura di tutte le cose.
Al suo posto, le opere in esposizione contrappongono mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse, abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici, come le creature fantastiche inventate da Carrington. Sotto la pressione di tecnologie sempre più invasive, i confini tra corpi e oggetti sono stati completamente trasformati, imponendo profonde mutazioni che ridisegnano nuove forme di soggettività e nuove anatomie.
I corpi ibridi al centro
Per la prima volta, sin dalle mostre del dopoguerra, la direttrice Alemani non ha potuto vedere dal vivo molte delle opere in mostra né ha incontrato di persona la gran parte delle artiste e degli artisti inclusi.
«In questi interminabili mesi passati di fronte a uno schermo» – scrive Alemani – «mi sono chiesta più volte quale fosse la responsabilità dell’Esposizione Internazionale d’Arte in questo momento storico e la risposta più semplice e sincera che mi sono riuscita a dare è che
la Biennale assomiglia a tutto ciò di cui ci siamo dolorosamente privati in questi ultimi due anni: la libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione, dell’incomprensione e quella della comunione
Il latte dei sogni non è una mostra sulla pandemia, ma registra inevitabilmente le convulsioni dei nostri tempi:
In questi momenti, come insegna la storia della Biennale di Venezia, l’arte e gli artisti ci aiutano a immaginare nuove forme di coesistenza e nuove, infinite possibilità di trasformazione
La sala sotterranea del Padiglione Centrale, non a caso, conduce proprio al fulcro di questa coesistenza: il primo tra i viaggi nel tempo pensati da Cecilia Alemani per la sua Biennale di Venezia è la capsula La culla della strega.
Nella raccolta di opere di artiste, scrittrici, danzatrici e intellettuali delle avanguardie storiche - presentate in un ensemble ispirato alle mostre del Surrealismo – emerge un «dominio del meraviglioso» – come lo ha definito Alemani - in cui le anatomie e le identità sono trasformate seguendo le tracce di desideri di metamorfosi ed emancipazione.
Ognuna delle artiste utilizza la propria metamorfosi come risposta ai costrutti di impronta maschile che governano l’identità.
Nel romanzo sperimentale Un ventre di donna. Romanzo chirurgico (1919), esposto nella capsule, l’attrice e scrittrice toscana Enif Robert racconta la storia di una donna che subisce l’asportazione dell’utero in seguito a una malattia infiammatoria. Il racconto è la cronaca delle sofferenze che la protagonista patisce durante la degenza e – scandito da parole in libertà e lettere che l’amico Marinetti le invia dal fronte – descrive l’operazione come una guerra personale e femminista. Combattendo il suo ginecologo che è contrario all’idea di renderla sterile, Robert sottolinea i vantaggi dell’isterectomia:
si dice libera della volubilità che la società riconosce nella donna, finalmente capace di una creatività vera e futurista
Tra gli altri scritti in esposizione, le parole di Rosa Rosà, pseudonimo futurista che l’artista Edith von Haynau adotta intorno al 1908 quando, arrivata in Italia da Vienna, diviene contributor femminista per L’Italia futurista. Sulle pagine della rivista, pubblica testi e tavole parolibere sfidando la nota misoginia che caratterizza il movimento futurista, per promuovere una figura femminile fiera ed emancipata. In uno degli articoli più audaci, Le donne del posdomani (1917), esalta l’eroico coraggio con cui le donne sostengono il peso della guerra invitandole a conservare la stessa tempra anche quando i loro mariti saranno tornati dal fronte.
VEDI ANCHE CultureLaetitia Ky, l’artista che combatte tabù, stigma e pregiudizi con le sue acconciatureIn una versione aggiornata, Rosà auspica addirittura uno stravolgimento delle convenzioni di genere e invita le “donne del posdomani” ad assumere un atteggiamento metaforicamente più virile, che le aiuti a non cadere vittime di un’esperienza totalizzante come quella della maternità
Sono alcune delle storie in contro tendenza ai tempi in cui si sono evolute e che raccontano le «donne streghe», custodi di una conoscenza che affonda le sue radici nella natura e nell’invisibile oltre al tempo, che «hanno scelto di adottare la metamorfosi, l’ambiguità e la frammentazione del corpo per contrastare l’idea dell’uomo unitario rinascimentale e in opposizione celebrano il dominio del meraviglioso e del fantastico, superando i dualismi tra mente e corpo, umano e non umano, maschile e femminile che pervadevano il pensiero rinascimentale in favore di un ibridismo e di un’individualità fluttuante».
Subito fuori dalla capsule, giovani artiste dialogano attraverso le generazioni riprendendo fili ed echi di tematiche e urgenze, che ora parlano di un postumano contemporaneo, multidisciplinare, fatto di corpo, ma anche di nuove libertà e di nuovi diritti: le forme mutanti messe in scena da Aneta Grzeszykowska, Julia Phillips, Ovartaci, Christina Quarles, Shuvinai Ashoona, Sara Enrico, Birgit Jurgenssen e Andra Ursut immaginano nuove combinazioni di organico e artificiale, concepite come possibilità di reinvenzione del sé.
Nuovi e complessi rapporti con la Terra e la natura vengono ipotizzati, proponendo inedite possibilità di convivenza con altre specie e con l’ambiente.
Il corpo è in relazione con lo spazio e con il tempo, sovvertendone narrazioni e strutture di potere. Così, il tempo e lo spazio, si riscrivono:
mettendo in dialogo generazioni di donne che immaginano, creano, diventano altro da sé e, allo stesso tempo, diventano sé