Colloqui di lavoro: cosa fare se ci vengono rivolte domande illegali?
È una situazione più comune di quello che si pensa: ci sentiamo preparate, abbiamo ripassato le dispense, aggiornato il portfolio, studiato l’impresa e imparato quasi a memoria l’organigramma aziendale. Eppure, al colloquio di lavoro, quello che temiamo arriva lo stesso: la domanda che ci mette inevitabilmente in difficoltà.
Non è solo questione di sfortuna: se dopo un quesito da parte del recruiter ci sentiamo a disagio, è molto probabile che ci sia stata posta una domanda tra quelle che la legge vieta di fare
In sede di colloquio, infatti, ci si aspetterebbe di parlare della propria formazione, del percorso lavorativo, della posizione per cui ci si sta candidando: spesso, invece, chi seleziona si interessa ad aspetti che dovrebbero essere irrilevanti ai fini dell’assunzione, risultando non solo poco professionale ma addirittura scorretto e illegale.
In questi casi, la legge può venirci in aiuto.
Domande illegali: c’entra il lavoro di cura femminile
“È sposata o convive?”, “Ha intenzione di avere figli?”, “Chi se ne occuperà mentre è al lavoro?”: le domande illegali più frequenti sono quelle rivolte alle donne, specialmente se in età fertile.
A chi seleziona importa sapere se la candidata ha figli, quanto sono grandi o se ha intenzione di averne, se ha la famiglia vicino, se convive. Se è disposta a spostarsi, quante responsabilità ha al di fuori dell’ufficio e, più in generale, quanto dovrà sacrificare sull’altare del lavoro. Il tentativo è quello di arrivare all’informazione attaccando dove si può
Questo interesse quasi ossessivo per le informazioni sulla vita privata di una donna, che improvvisamente perde di consistenza e significato nel caso in cui il candidato sia maschio, rappresenta il più amaro riconoscimento del lavoro di cura femminile: dal momento che, per la gran parte, sono le donne a occuparsi della casa, dei figli e dell’andamento familiare, i recruiter si interessano di colpo al carico di energie impiegato, il quale potrebbe o dovrebbe, nella loro prospettiva, essere piuttosto investito nella mansione a scongiurare un possibile calo della produttività.
Questa tendenza rivela, tra le problematiche legate al lavoro in Italia, da un lato la concezione radicata che il lavoro di cura dei figli e della famiglia sia e debba essere prerogativa solo femminile, e lo dimostra la resistenza di fronte al l'allargamento di misure come il congedo di paternità; dall'altro, il rifiuto di modelli lavorativi che valorizzano e che sfruttano, per tutti e tutte, i comprovati vantaggi di un buon equilibrio tra vita privata e professionale.
Sembra quasi impossibile, in Italia, conciliare una vita lavorativa produttiva e di successo con la cura del proprio nucleo familiare o affettivo, aggravando la spaccatura che vede gli uomini come lavoratori o mammi, le donne come donne - significativamente, senza ulteriori specificazioni - o donne in carriera. Tutto questo mentre altre realtà europee sperimentano un più realistico approccio alla vita di oggi e adottano misure come la settimana lavorativa ridotta.
Come se non bastasse, sulle donne grava ancora un generico pregiudizio che le costringe a dimostrare di meritarsi il ruolo. Secondo uno studio riportato dal Telegraph, in aggiunta alle domande inappropriate, le donne vengono mediamente interrotte più spesso degli uomini, col fine di metterle alla prova – di più
Domande scomode: cosa dice la legge
Davanti a domande inopportune dal punto di vista professionale, la legge ci viene in aiuto: per esempio, l’art. 27 del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna – Dlgs 198/2006 specifica come siano vietate ai fini dell’assunzione le discriminazioni fondate sul sesso, anche attuate “attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza”.
Ancora più chiaramente l’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori vieta “al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”
Se si ricevono domande sulla propria ideologia politica, sulla fede religiosa e sulla nazionalità, invece, bisogna appellarsi al Dlgs 215/2003 – Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dall’origine etnica. Il Dlgs 216/2003 vieta espressamente le discriminazioni per motivi di religione, convinzioni personali, disabilità, età e orientamento sessuale, e infine il Dlgs 276/03 protegge contro le discriminazioni legate allo stato di salute fisica e psicologica del candidato.
La parità di opportunità e di uguale trattamento nell’accesso al lavoro, nelle condizioni di impiego e di lavoro, compresa la retribuzione e le promozioni è ulteriormente ribadita dall’art. 20 della Carta Sociale Europea Riveduta stilata dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS)
Cosa possiamo fare nel concreto
A corollario di quanto detto, il lavoro oggi in Italia non è ancora il diritto tutelato che vorremmo fosse, e di fronte a una domanda illegale posta direttamente può essere difficile rifiutarsi di rispondere in maniera altrettanto diretta.
La consapevolezza di essere nel giusto, però, è un solido sostegno anche nel caso in cui si scelga di rispondere proponendo di tornare ad argomenti pertinenti alla posizione lavorativa. Un’altra cosa da fare sarebbe rivolgersi ad esperti in diritto del lavoro, per valutare insieme i possibili rimedi.
È possibile anche farlo gratuitamente, in particolare per quanto riguarda le problematiche legate alla discriminazione delle donne, rivolgendosi alle Consigliere di parità del proprio territorio, come prevede il D.lgs. 198/06, oppure ai diversi sportelli delle associazioni che si occupano di donne e diritti negati diffusi sul territorio italiano: ne sono un esempio Differenza Donna, l’Unionefemminile, Ihaveavoice o il Centrodonnalisa.
Riconoscere e denunciare gli abusi, grandi o piccoli che siano, è la direzione verso cui muoversi per smascherare qualsiasi tentativo di pinkwashing aziendale e rivendicare i propri diritti
Non è possibile ignorare che chi offre un impiego sia in una posizione di potere, mentre chi aspira al lavoro sia in una la condizione di necessità. Anche per questa ragione, è necessario un segnale deciso per il cambiamento sociale.