Deep Mining: perché devasterebbe i nostri mari (e perché dovremmo opporci)

Qualche mese fa abbiamo parlato di quanto minerali e terre rare saranno sempre più richiesti nell’ottica della decarbonizzazione e di come questa enorme domanda metta in qualche modo in serio pericolo i nostri oceani. Oggi, a distanza di qualche tempo torniamo a parlarne perché la situazione si sta facendo preoccupante. Ecco cosa c'è da sapere sul deep sea mining

Per l’OCSE, entro il 2030 il valore dell’economia blu - ovvero un modello di economia improntato sulla creazione di un sistema economico sostenibile attraverso l'innovazione tecnologica - raddoppierà, raggiungendo gli oltre 3 trilioni di dollari.

Tuttavia, a far capolino non c’è solo lo spettro dell’estrazione oceanica di metalli e terre rare, già di per sé gravissimo, ma anche il fatto che non esista una normativa internazionale che regoli queste attività. Infatti, fino ad ora l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini - l'ISA, organo delle Nazioni Unite istituito nel 1994 - non ha trovato una quadra normativa che facesse convergere le idee, le necessità e le normative di tutti i 167 paesi membri in fatto di estrazione di queste materie prime

Facciamo il quadro della situazione.

Lo scorso 3 marzo si è concluso con uno storico successo il Trattato Globale sugli Oceani, e a luglio si deciderà se autorizzare o meno le attività di estrazione mineraria negli abissi - il cosiddetto deep mining - non senza gravi conseguenze per tutti. Sembra un controsenso, vero? A quanto pare l’approvazione del Trattato per la tutela del 30% dei mari (e dell’alto mare) entro il 2030 non è stato sufficiente a placare la “corsa all’oro” di tutto il mondo.

A inizio maggio è stato a Roma il Segretario Generale dell’ISA Michael Lodge, il quale ha riportato: «abbiamo una trentina di progetti di esplorazione e mappatura dei fondali attivi in tutto il mondo, da noi coordinate […] la Cina ne finanzia cinque, la Russia tre, la Germania, il Giappone, la Repubblica di Corea, l’India due. Altri sono sostenuti da Francia, Germania, Polonia, Regno Unito, Belgio». E l’Italia? Ovviamente ha parlato anche di noi: «è tra i Paesi europei non ancora coinvolti nella sponsorizzazione. All’inizio, negli anni Ottanta, nell’ambito di un consorzio con gli USA e altri Stati aveva espresso un certo interesse, poi questo è venuto meno».

Tutto questo, nonostante tra le zone in cui poter procedere con le esplorazioni ci sia anche il Mediterraneo!

Ma qual è il problema? Il problema è che l’Italia è tra i 36 paesi con diritto di voto all’International Seabed Authority e… un suo voto favorevole al deep sea mining potrebbe essere decisivo. Lo scorso novembre, come riportato da Greenpeace, l’Italia ha sostenuto che prima di avviare le estrazioni deve essere garantita la tutela ambientale. Tuttavia, sappiamo anche che almeno un paio di grandi compagnie italiane sono fortemente interessate al deep mining. Infatti, potrebbero facilmente riconvertire il know-how delle estrazioni petrolifere off-shore in questo tipo di attività.

A essere di grande interesse sono le zone del Tirreno meridionale, a nord delle Isole Eolie e la zona di Clarion – Clipperton (Ccz) nell’Oceano Pacifico: una pianura abissale poco conosciuta che è rimasta piuttosto incontaminata e dove molte specie ai limiti dell’estinzione stanno ritrovando la forza di riprendersi. In questa zona però si trovano anche milioni di noduli polimetallici che impiegano milioni di anni a formarsi e ospitano sulla loro superficie una biodiversità enorme.

Si tratta di “sfere” ricche di ferro, manganese, rame, nichel e cobalto che si concentrano attorno a un cosiddetto innesco naturale che può essere una conchiglia, un dente di squalo… qui puoi trovare una spiegazione molto interessante di questo.

Si tratta dunque di metalli che fanno enorme gola a molti continenti.

Procedere all’estrazione non significa solo devastare, contaminare e inquinare l’acqua ma significa anche rompere degli equilibri dai quali dipende anche la nostra sopravvivenza, il nostro cibo e la capacità degli oceani di assorbire anidride carbonica

Queste conseguenze ovviamente non sono frutto di ideologie ma sono state studiate e riportate dalla deep sea conservation coalition, gruppo di cui fanno parte ben 100 organizzazioni internazionali.

Allo stato dell’arte possiamo contare ben 17 dei 31 permessi concessi dall’ISA nell’area del Ccz, mentre due si riferiscono all’Oceano Indiano e al Pacifico nord-occidentale.

Insomma, i nostri oceani stanno già cercando di resistere a una pressione senza precedenti data da pesca, trivellazioni, inquinamento da pesticidi, plastiche.

Questo tipo di attività andrebbe solo a peggiorare il quadro, a mettere sempre più in pericolo il nostro benessere nel breve tempo e la nostra sopravvivenza nel lungo periodo


Federica Gasbarro collabora con The Wom in modo indipendente e non è in alcun modo collegata alle inserzioni pubblicitarie che possono apparire all'interno di questo contenuto.

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