Diritto all’aborto, perché dopo 46 anni è il momento di rivedere la legge 194
Già dalla sua entrata in vigore, le donne che avevano lottato per ottenere la legge 194 si resero conto della disparità tra l’investimento delle loro battaglie e l’obiettivo raggiunto. La legge, infatti, contiene in sé tutti gli strumenti che possono svuotarla: per questo, 46 anni dopo, è ancora necessario chiedere di ampliarne l’applicazione e modificarla su presupposti diversi che mettano al centro l’autodeterminazione delle donne.
Legge 194, traguardo e compromesso
La legge 194, intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza", come riporta l’articolo 1, prevede di proteggere «il valore sociale della maternità e la vita umana dal suo inizio». Solo a date condizioni permette l’aborto.
Ne è un esempio l’articolo 4, in cui sono elencate le «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica» della donna e rendono dunque legittimo richiedere un aborto: quelle «in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito».
Negli articoli della legge non si parla mai esplicitamente di interruzione volontaria di gravidanza rispetto alla libera scelta della persona
Il presupposto da cui si parte è quello per cui la maternità non possa essere portata avanti solo per un’impossibilità. Ovvero la presenza di alcune circostanze sfavorevoli che, la legge stessa, chiede di superare.
A riguardo interviene l’articolo 2 sui consultori che, secondo la legge, avrebbero la funzione fondamentale di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza». Anche l’articolo 5 chiarisce l’argomentazione per cui il consultorio debba essere considerato come la struttura socio-sanitaria che, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, ha il compito in ogni caso - ma specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata da circostanze economiche, o sociali, o familiari - di esaminare delle «possibili soluzioni» e aiutare la persona «a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza».
Questi presupposti si muovono in controtendenza rispetto al totale e libero esercizio, da parte delle donne, della propria libertà rispetto alla loro salute sessuale e riproduttiva: un diritto che il Parlamento europeo si propone di aggiungere alla Carta dei diritti fondamentali dell'UE e che, invece, viene ostacolato da iniziative legislative opposte.
VEDI ANCHE CulturePerché i consultori sono una conquista femminista e vanno difesiCon un emendamento al decreto sui fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il governo Meloni punta a stabilire nei consultori la presenza di associazioni «che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità»: il rischio - citando proprio l’articolo 2 della legge 194 che prevede la «collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possano anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita» - è quello di garantire libero accesso ai consultori alle organizzazioni contro l'aborto, erroneamente chiamate pro-vita o pro-life.
Le “crepe” della legge 194 e perché è importante rivederla
I passaggi più ambigui della legge 194 sono frutto di un necessario compromesso e di un altro tempo. Per approvare la legge, di cui si discuteva da più di cinque anni, fu infatti necessario accettare la struttura proposta dalle forze cattoliche che prevedeva una legge che tutelasse in primis la maternità, non il diritto di aborto, e a cui si può ricorre solo in determinate condizioni e sempre con l’approvazione di un medico. In queste crepe, oggi, continuano a innestarsi ostacoli ingombranti all’autodeterminazione delle donne.
L’obiezione di coscienza, implementata per tutelare i medici cattolici nella transizione da un Paese in cui l’aborto era illegale a uno in cui si sarebbe potuto praticare ovunque, è diventata una prassi
Secondo i dati del Ministero della Salute – aggregati e risalenti al 2020, è obiettore di coscienza il 36,2% del personale non medico, il 44,6% degli anestesisti e il 64,6% dei ginecologi, con picchi dell’84,5%.
46 anni dopo l’approvazione della legge che ha depenalizzato l’aborto in Italia entro il terzo mese di gravidanza, il tasso di obiezione tra i medici e il personale sanitario risulta essere talmente alto da rendere impraticabile l’interruzione di gravidanza in molte zone del paese.
La problematicità della situazione attuale emerge chiaramente anche dal recente rapporto “Aborto farmacologico in Italia: tra ritardi, opposizioni e linee guida internazionali” di Medici del Mondo, rete internazionale impegnata a garantire l’accesso alla salute, che mette in risalto le disuguaglianze nell’accesso alle pratiche abortive attraverso dati, interviste e testimonianze di personale sanitario, raccolte in tutta Italia.
Sebbene l’interruzione volontaria di gravidanza sia una prestazione compresa nei Lea – ovvero nell’elenco di prestazioni e servizi essenziali che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini – in Italia poco più della metà delle strutture ospedaliere la effettua.
Non solo: la pillola abortiva (Ru486) continua a essere considerata un farmaco rischioso, nonostante dal 2006 l’Oms la consideri un farmaco essenziale per la salute riproduttiva
Il report “Mai dati” dell’associazione Luca Coscioni, curato da Chiara Lalli e Sonia Montegiove (diventato un libro nel 2022), stringe l’analisi regione per regione: in Italia sarebbero 72 gli ospedali che hanno tra l’80 e il 100 per cento di obiettori di coscienza tra il personale sanitario; ventidue gli ospedali e quattro i consultori con il 100 per cento di obiettori tra tutto il personale sanitario, 18 gli ospedali con il 100 per cento di ginecologi obiettori e infine 46 le strutture che hanno una percentuale di obiettori superiore all’80 per cento.
In Molise, ad esempio, l’ivg si pratica solo nell’ospedale di Campobasso e l’unico medico non obiettore della regione, Michele Mariano, è stato diverse volte costretto a rimandare la pensione, poiché ai concorsi indetti per la sua sostituzione non si presentava nessuno
Potenziare i consultori, ampliare il diritto all’autodeterminazione
Potenziare i consultori, renderli capillari sui territori e adottare una postura intersezionale rispetto al diritto all’autodeterminazione è dunque fondamentale.
A indicare la rotta verso la revisione della legge 194 è Graziella Bastelli, attivista e femminista, rappresentante della Rete nazionale dei consultori e delle consultorie.
In occasione dell’iniziativa “Ieri e oggi: nostro il corpo, nostra la scelta”, organizzato a Roma lo scorso 22 maggio dal centro donna L.I.S.A, Bastelli chiarisce a The Wom il ruolo fondamentale dei consultori e i rischi in corso: «Come rete ci siamo mosse da anni perché era chiaro il tipo di attacco che veniva concretizzato rispetto ai consultori. E non solo in questi luoghi, ma anche nei reparti degli ospedali dedicati all’interruzione di gravidanza e ai centri anti violenza che, inoltre, si vedono usurpati dell’acronimo Cav dai centri antiabortisti – afferma Bastelli - Dall’approvazione della 194 ad oggi sono stati tanti gli attacchi subiti dai consultori: luoghi che non si occupano solo di aborto, ma anche della salute e del benessere delle donne. Dal ’78 ad oggi la realtà è cambiata e bisogna garantire questo diritto a tutte le identità che attraversano i consultori, persone transgender e libere soggettività incluse. Oggi bisogna parlare di transfemminismo. Anche nei consultori che devono necessariamente avere una postura transfemminista. Non mi viene da festeggiare la 194: vogliamo di più perché quella legge – ed ero presente quando è stata approvata – è stata una mediazione che non ha rispettato il volere delle donne e delle piazze».
Non chiediamo la luna: chiediamo di essere considerate delle persone pensanti, capaci di decidere rispetto alla maternità e alla nostra salute.
Sull’importanza di scegliere liberamente riguardo maternità e salute, alle parole di Bastelli fanno eco anche quelle di Tania La Tella, attivista del centro donna L.I.S.A, per cui «decidere se essere o meno madre è una libera scelta che oggi troppo spesso viene messa in discussione».
«Abbiamo una legge che garantisce l’aborto sicuro, evitando quello che prima accadeva, ovvero che le donne morissero sotto i ferri, ma non ci vediamo ancora garantito l'aborto libero – spiega La Tella a The Wom - Questo accade sia per la presenza di un numero elevatissimo di obiettori di coscienza che per la presenza di associazioni antiabortiste che, ci tengo a precisare, non è corretto chiamare associazioni pro life. La 194 prevede la presenza di associazioni che sostengano le donne. Questo non significa sostenerle economicamente per convincerle a non abortire con assegni da cento o, quando va bene, mille euro. È lo Stato che deve intervenire nel supporto alla genitorialità, tutelando in primis la libera scelta».
46 anni dopo l’entrata in vigore della 194, dunque, la strada è ancora in salita. A pagarne il prezzo è il diritto all’autodeterminazione delle donne. Oltre che presidiarli, i diritti occorre ampliarli: le nuove generazioni lo sanno. Come nelle piazze e a capo dei cortei, «tutte le ragazze avanti».