«Perché la vergogna cambi lato»: il caso Pélicot insegna come parlare di violenza sessuale
«Non voglio più che provino vergogna. La vergogna non dobbiamo provarla noi, sono loro che devono provarla»: la vergogna deve cambiare lato. Sono queste le parole attraverso cui Gisèle Pelicot sta cambiando la narrazione e il modo di “guardare” alla violenza maschile contro le donne. Proprio a loro si riferisce durante la sua testimonianza: non sono le donne stuprate che devono provare vergogna, ma gli uomini stupratori. Un atto potente che Pélicot mette a segno non solo per lei. Ma per tutte le ragazze che non dovranno vergognarsi più. Perché «la vergogna deve cambiare lato e nessun’altra donna deve subire quello che ho subito io».
Abusata per anni dal marito, i fatti e le testimonianze
Tutto parte nel 2020 quando Gisèle Pélicot venne convocata dalla polizia dopo che suo marito Dominique era stato sorpreso a filmare le parti intime di alcune donne in un centro commerciale. La donna testimoniò a favore del marito ma, in quell’occasione, le forze dell’ordine la informarono di due cose: il marito era stato multato per lo stesso reato senza che lei lo sapesse nel 2010 e, soprattutto, durante le perquisizioni era stato trovato qualcosa che la riguardava personalmente. Ovvero una cartella denominata “Abuso” contenente centinaia di video e foto che ritraevano Gisèle incosciente mentre alcuni uomini abusavano di lei. Tutto il materiale era stato documentato con data e nome.
Nel computer del marito gli inquirenti hanno rinvenuto in totale circa 4 mila tra foto e video, meticolosamente conservati e catalogati dall’uomo. Immagini di circa 200 stupri subiti in dieci anni compiuti da 83 uomini in tutto, dei quali 51 identificati e arrestati
Gisèle Pélicot ha raccontato di non essersi mai accorta dei tentativi del marito di renderla incosciente: «Spesso, quando c’era una partita di calcio in televisione, lo lasciavo a guardarla da solo. Poi mi portava il gelato a letto: il mio gusto preferito, lampone. E io pensavo: quanto sono fortunata».
Pélicot ha spiegato che aveva perdite di memoria e non si sentiva bene e che per questo motivo aveva sospettato di avere l’Alzheimer. Il marito assecondava questa sensazione e l’aveva accompagnata a diverse visite neurologiche. Nella sua disposizione, commentando quello che hanno detto in aula le mogli, le madri e le sorelle degli imputati, cioè che si trattava di “uomini eccezionali”, ha aggiunto che:
uno stupratore non è solo qualcuno che incontri in un parcheggio di buio a tarda notte. Lo puoi trovare anche in famiglia e tra gli amici
Responsabilità maschile, non chiamiamoli “mostri”
«Confesso tutti i fatti di cui sono accusato, senza eccezioni», ha detto durante il processo Dominique Pélicot, accusato di aver drogato la moglie per 10 anni per stuprarla e farla stuprare da decine di uomini.
Il riconoscimento della responsabilità maschile è fondamentale per avviare un discorso nuovo e più profondo sulla radice culturale della violenza. Come ha riportato la stessa Pélicot durante il processo, gli stupratori non sono animali, né malati. Sono uomini comuni che si muovono tra noi. Per estirpare il fenomeno della violenza maschile contro le donne - che è un fenomeno per la sua diffusione strutturale – è necessario e urgente smettere di pensare che i carnefici siano mostri. Definirli mostri significa individuarli e circoscriverli in definizioni precise che non corrispondono alla realtà: nel saggio “Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale”, le sociologhe Elisa Giomi e Sveva Magaraggia spiegano come la “mostrificazione” del violento nel discorso mediatico sia «la strategia più ricorrente per esorcizzare la violenza, liquidandola come aberrazione individuale e degenderizzandone la lettura».
Raccontare gli autori di stupro come “mostri” o “bestie” – richiamando l’animalesco - consolida l’immaginario per cui la violenza sessuale sarebbe legata al desiderio carnale irrefrenabile, cancellando qualsiasi aspetto riguardante il potere
Durante il processo molti degli imputati si sono dichiarati innocenti, sostenendo di essere stati ingannati dal signor Pelicot, che gli avrebbe fatto credere che la moglie addormentata era in realtà consenziente. Che si trattasse, insomma, di un gioco erotico, non di una violenza sessuale. Alcuni uomini (non imputati) contattati dal signor Pelicot per prendere parte agli stupri hanno rifiutato ma non per questo denunciato alle autorità la condotta dell’uomo. Una meschina forma di “cameratismo” e omertà maschile che sta svelando le radici culturali su cui la violenza attecchisce.
La “mostruosità”, degli uomini stupratori, e di quelli complici, attutisce le loro responsabilità: Pélicot non è stata vittima di uomini mostri, ma esattamente degli uomini comuni che popolano le nostre case, i nostri uffici, i nostri supermercati, le nostre palestre, le nostre vite
Perché la vergogna cambi lato: il caso di Gisèle Pélicot a beneficio di tutte
Ribaltando il significato di “vittima” – che rimanda a una condizione di sottomissione e passività - e riappropriandosi invece della sua agency, intesa come una forma di particolare autonomia nell’azione, cioè una scelta tra azioni possibili, che promuove un cambiamento sociale – Gisèle Pélicot rivendica il suo spazio e promuove un cambiamento preciso.
Il suo gesto, ovvero scegliere di tenere il processo a porte aperte, diventa collettivo e arriva nelle vite di altre persone. Di altre donne che si riconoscono
In diverse città francesi si sono svolte manifestazioni femministe di solidarietà per Gisèle Pélicot. A Parigi, Marsiglia, Bordeaux e Strasburgo si sono radunate alcune migliaia di persone e manifestazioni più piccole si sono svolte in totale in una trentina di città.
Tra gli slogan più ricorrenti si sono visti “Io ti credo”, riferito al problema diffuso tra le donne che denunciano di non essere prese sul serio; “La vergogna deve cambiare lato”, perché spesso chi subisce violenze prova vergogna nonostante sia solo una vittima. Nelle sue deposizioni Pélicot ha citato esplicitamente la cosiddetta “cultura dello stupro”: la definizione, elaborata nel 1975 dalla giornalista Susan Brownmiller, indica «il processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura». Quasi cinquant’anni dopo la situazione sembra rimanere la stessa ma, a cambiare, sono le donne che, se pur troppo spesso costrette alla paura, sono sempre più consapevoli di non dover mai più provare vergogna.