Il (tragico) impatto ambientale e sociale del fast fashion

Quelli del fast fashion e subito dopo dell’ultrafashion sono modelli di business che si sono insinuati pian piano nella nostra vita quotidiana e hanno trovato la loro massima espressione nel fenomeno dell’acquisto compulsivo, senza che noi ce ne accorgessimo. Una nuova dipendenza, quella dalla moda a basso costo, trainata dal costante senso di necessità, di urgenza e di scarsità che viene suggerito attraverso le più varie strategie di marketing

Compriamo per paura di perdere l’occasione, compriamo perchè siamo tristi o perchè siamo felici, compriamo perchè temiamo che quella maglietta possa andare sold out quando in realtà, ogni anno vengono prodotti più di 100 miliardi di nuovi capi e ogni secondo un camion pieno di vestiti (spesso pieno di eccedenze invendute) viene svuotato in una discarica. Quindi direi che no, quella maglia a fiori identica ad altre centinaia di migliaia sul mercato non è la nostra ultima occasione.

Un mercato, quello della moda veloce, che vale 36 miliardi di dollari e che nonostante gli sforzi degli ambientalisti e gli avvertimenti degli scienziati continua inesorabilmente a crescere, riempiendo gli scaffali dei negozi, le ante dei nostri armadi e le dune dei deserti in posti in cui le persone non hanno cibo, non hanno acqua ma posseggono l’ultima gonna di tendenza.

Ma quando inizia il fenomeno della moda veloce? Che impatto ha sulla nostra vita? Come facciamo a disintossicarci?

La nascita del fast fashion

Siamo nel 1800 e negli Stati Uniti nascono gli slop shop, (qui una lettura consigliata), i primi negozi che non vendevano abbigliamento su misura ma uniformi o capi di seconda mano per lavoratori o cittadini meno abbienti. Queste realtà, pur essendo molto lontane dalle catene di abbigliamento di oggi, sono comunque il primo mattone di quello che un giorno diventerà uno dei più grandi problemi al mondo.

Durante la rivoluzione industriale, con l’avvento delle prime industrie e macchine da cucire, produrre capi smette di essere un processo lento e costoso. L’arrivo della Seconda Guerra Mondiale però segna una brusca frenata, le stoffe vengono razionate e i capi diventano sempre più standard.

Nel 1947 nasce la catena H&M e solo una manciata di decenni dopo, nel 1975, Zara. Più tardi nascerà anche la holding Inditex, che oltre ai marchi appena citati oggi possiede anche Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius e Oysho.

Il fenomeno del fast fashion emerge però solo negli anni 2000, con decine di collezioni nuove all’anno che replicano, a basso costo, i modelli delle grandi maison

A condire il tutto? insicurezza economica e crisi. Secondo Elizabeth Cline, scrittrice ed esperta del settore, le “micro-stagioni” del fast fashion sono ben 52.

A battere la velocità della moda veloce però, è l’ultrafashion, il nuovo modello di business che può arrivare a produrre fino a 6000 nuovi capi al giorno

Il target sono gli under 25 che ordinano o ricevono in regalo da colossi del settore scatole e scatole di vestiti in cambio di video chiamati “try on haul” per pubblicizzare i nuovi arrivi.

Ma qual è il problema di tutto ciò? Semplice: troppi prodotti = troppi futuri rifiuti.

Colpa o responsabilità? È colpa di un’economia che non ci dà la possibilità di spendere molto per capi di qualità o forse è questione di valori che non abbiamo più? Siamo vittime di un mondo in cui tutto deve essere veloce: dai likes a un post al successo lavorativo. Sono domande complesse, ma è pur vero che abbiamo un cervello e la facoltà di documentarci per decidere.

L'impatto della moda veloce

L’impatto di questo tipo di industria è importante e parte da prima ancora che un capo venga concepito. Partiamo dalle materie prime: cotone e viscosa sono fibre di derivazione naturale ma che richiedono molta acqua per essere prodotte, e poi ci sono nylon, acrilico, poliuretano o elastan, tutti derivati da idrocarburi come il petrolio. Una volta prodotti i fili e intrecciati a formare i capi, questi vanno colorati: un aspetto non da poco, dato che

in Asia c’è un detto: “per conoscere la prossima tendenza, basta guardare il colore dei corsi d’acqua”

Alcune inchieste hanno poi scoperto sostanza cancerogene in diversi indumenti (anche per bambini), ma questa è un’altra storia.

Il viaggio di un capo di abbigliamento, a questo punto, è solo all’inizio. Deve infatti ancora essere trasportato nei negozi o nelle nostre case con un ulteriore grandissimo impatto in termini di emissioni di CO2, di uso di elettricità ed energia prodotti sempre da fonti fossili.

Il Ghana, travolto dai rifiuti di abiti
Il Ghana, travolto dai rifiuti di abiti

Nelle nostre case poi, una volta terminato il loro ciclo di vita e avendo inquinato rilasciando spesso microplastiche al momento del lavaggio, vengono gettati via per poi essere raccolti e trasportati (con altre emissioni) nelle discariche presenti in Africa, Cina o Sud America dove spesso vengono bruciati producendo altri gas climalteranti.

Per persona, nella sola UE, produciamo 654 Kg di CO2 eq all’anno!

La soluzione? Recycling, Upcycling e second hand… ma anche il minimalismo è di grande aiuto! Di questo però ne parliamo la prossima volta!


Federica Gasbarro collabora con The Wom in modo indipendente e non è in alcun modo collegata alle inserzioni pubblicitarie che possono apparire all'interno di questo contenuto.

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