Made in carcere: quando la moda viene creata dalle detenute
«Made in carcere prova ogni giorno a contaminare la società economica e civile, attraverso la promozione e la diffusione del nostro modello di “economia rigenerativa”. Un modello di impresa etica, basato su principi di rigenerazione e consapevolezza delle persone emarginate, a tutela dell’impatto ambientale e dell’inclusione sociale, determinando così nel tempo un cambiamento sistemico su tutto il territorio», si legge sul sito dell’associazione. Il progetto è attivo nelle carceri di Lecce, Matera, Trani, Bari, Taranto e Nisida.
Protagoniste sono le donne in stato di detenzione, o sottoposte a limitazione della libertà personale, a cui viene offerta l’opportunità di acquisire delle competenze tecniche e professionali per un futuro inserimento lavorativo
Economia circolare in carcere
Parole chiave per Made in carcere sono formazione e retribuzione del lavoro. Le detenute mettono in atto un modello di economia sociale di tipo "circolare". Centrale anche il beneficio per l’ambiente: tutto viene creato a partire da pezzi di scarto, dal recupero di materiale tessile scartato. Quello che viene buttato dalle imprese, e destinato a finire negli inceneritori, acquista nuova vita e diventa materia prima per la lavorazione in carcere.
La nuova vita data alla stoffa è metafora della seconda chance offerta a quelle donne che si trovano a lavorare dentro le mura del carcere
Ilaria Palma, responsabile di produzione, racconta a The Wom che Made in carcere «è una cooperativa sociale, e il ricavato della vendita va a coprire le spese e lo stipendio delle dipendenti»; poi precisa «le dipendenti sono le detenute che lavorano alla realizzazione dei prodotti».
Come si svolge il lavoro di Made in carcere dentro le mura
Parlando dell’organizzazione di Made in carcere, la responsabile di produzione ci tiene a dire che «la filosofia del progetto e questo nuovo modello di impresa è stato adottato per la prima volta da Made in carcere».
Rigenerare il tessuto che va al macero e realizzare dei prodotti, dei gadget per dargli una nuova vita, dando parallelamente anche una nuova vita alle detenute
Made in carcere lavora alla formazione su due livelli: da un lato c'è la formazione necessaria per le persone della società civile che entrano in carcere a insegnare il mestiere, dato che le responsabili «sono già formate a livello tecnico, ma c'è bisogno anche di una formazione psicologica per interagire con una detenuta», come dice Palma.
Dall’altro lato, invece, ci sono le detenute che devo apprendere le varie fasi del lavoro. «Bisogna fare un percorso di formazione che richiede pazienza. Ogni detenuta ha una sua predisposizione». Poi Palma prosegue:
C’'è chi non è predisposta alla macchina da cucire, ma è più predisposta per tagliare dei fili, per fare un controllo, per stirare e anche per organizzare. Noi responsabili di produzione individuiamo le persoen più adatte per ogni mansione
Le detenute, racconta Palma, svolgono questa attività 6 ore al giorno dal lunedì al venerdì. Ma ci sono delle eccezioni, come per esempio nel periodo natalizio, quando aumenta la mole di lavoro e gli ordini dei clienti, e «si fa una richiesta al carcere che autorizza le ragazze a far eseguire un’ora in più di straordinari e poi si aggiunge anche il sabato per metà giornata».
Cosa succede quando si finisce di scontare la pena
Il passaggio dall’interno all’esterno del carcere a volte è repentino altre, invece, avviene gradualmente nei casi in cui è possibile usufruire di alcuni benefici. Anche in questo passaggio Made in carcere fa da anello di congiunzione grazie al suo laboratorio sartoriale fuori dalle mura.
Come racconta Palma, il cordone ombelicale non si spezza. Molte volte le dipendenti, man mano che escono dal carcere, chiedono di essere inserite nel laboratorio, «ma non possiamo prendere tutti all'esterno. Sicuramente ci sono dei momenti in cui abbiamo bisogno e le richiamiamo a lavorare». Poi fa un esempio: una ragazza ha continuato a lavorare con Made in carcere per 4 anni.
«Molte, quando finiscono di scontare la pena, se sono della zona, rimangono in contatto con noi; molte tornano ai loro paesi, ma visto che hanno imparato l’arte della cucitura cercano lavoro nel settore e molte continuano a lavorare», spiega Palma.
Facilitare il reinserimento nella società
Per Made in carcere la missione è facilitare il passaggio dall’interno all’esterno. «Si perde la cognizione della normalità, quello che hanno lasciato non lo dimenticano, ma qualcosa si perde. C’è anche un po' di paura nei confronti della società e di come l’hanno lasciata, della ricerca del lavoro e del contatto con le persone. In questo passaggio delicato vengono formate da noi», aggiunge la responsabile di produzione.
Il valore aggiunto è la rete tra associazioni
Nel corso degli anni sempre più realtà hanno preso come esempio Made in carcere. Ilaria Palma è fiera del progetto: «Si parla sempre più spesso di inclusione sociale e impatto ambientale, ma noi questi temi li affrontiamo da circa 16 anni».
Con questo modello cerchiamo anche di insegnare agli altri a fare lo stesso, è questo il nostro obiettivo. Diffondiamo questo modello e man mano ci autofinanziamo. A nostra volta doniamo anche del tessuto a numerose cooperative e alle sartorie di periferia
Si crea così una rete fra le associazioni che operano sul territorio e uno scambio di competenze e materiali.
La dignità delle detenute
Il percorso lavorativo intrapreso, la possibilità di guadagno connessa all’esigenza di aiutare la famiglia generano soddisfazione nelle detenute. Importante è anche il rapporto che si crea fra detenute-dipendenti, che «formano un gruppo».
Un gruppo che collabora, che si aiuta. Fra compagne c’è l'altruismo: quello che a volte non vediamo fuori. Si scatena un meccanismo differente, là la visione è chiusa, per cui ogni minimo problema viene comunque amplificato. Gioia e dolore vengono amplificate