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Revenge porn: 4 motivi per cui è sbagliato chiamarlo così

A fine gennaio, in Italia, si è tornati a parlare di revenge porn in seguito alla denuncia di Diana Di Meo, l’arbitra di calcio maschile che ha dichiarato pubblicamente che alcune immagini e video che la ritraevano in contesti intimi erano stati condivisi (e alcuni anche registrati) a sua insaputa. Ma perché è sbagliato definire il revenge porn così e associarlo alla vendetta?  

La ventiduenne abruzzese ha ricostruito l’intera vicenda attraverso il suo profilo Instagram e il suo caso ha attirato l’attenzione di molti giornali: non sono molte, infatti, le vittime del cosiddetto revenge porn che scelgono di parlare apertamente degli abusi subiti. Perché? La pressione sociale a cui vengono esposte è fortissima, tra cui spiccano fenomeni come lo slutshaming e il victim blaming. Inoltre,

lo stesso termine revenge porn contribuisce a dare un’immagine sbagliata di un fenomeno complesso e che molto spesso ha ben poco a che fare con l’idea di “vendetta” a cui si riferisce

Ma perché parliamo di revenge porn?

Nel 2010, un americano di nome Hunter Moore crea IsAnyoneUp, un sito a cui gli utenti possono inviare contenuti espliciti che ritraggono altre persone senza il loro consenso. Spesso le immagini vengono accompagnate da informazioni personali delle vittime, come nome, indirizzo e occupazione, anch’esse diffuse in maniera non consensuale (una pratica che oggi ha un nome: doxing). L’FBI inizia a indagare su Moore nel 2012 dopo aver ricevuto una serie di prove raccolte dalla madre di una delle vittime, Charlotte Laws.

Moore viene arrestato e condannato a rimanere in carcere per due anni e mezzo, mentre Laws e altre donne si uniscono attorno alla Cyber Civil Rights Initiative, organizzazione non-profit che aiuta le vittime di cybercrimini tra cui la diffusione non consensuale di materiale intimo

Nello stesso periodo, anche a causa dello scandalo di IsAnyoneUp, si inizia a parlare sempre più di revenge porn sulla stampa anglofona, legittimando l’uso di questo termine. Nel 2014 alcuni stati americani approvano leggi contro il revenge porn e nel 2015 è il turno di Inghilterra e Galles.

In Italia il revenge porn diventa argomento di dibattito pubblico nel 2016 in seguito al caso di Tiziana Cantone, la trentunenne che si è suicidata in seguito alla diffusione in rete di alcuni suoi video intimi. Solo nel 2019, dopo due anni di intenso impegno da parte dell’attivismo e della politica, il revenge porn viene inserito nel Codice penale con l’articolo 612-ter: da quel momento,

chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000

La stessa pena si applica a chi condivide a sua volta il materiale ricevuto, mentre viene aumentata se "i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa".

All’interno del testo non viene mai citata l’espressione revenge porn (si parla invece di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”), ma i giornali (e anche la Polizia di Stato sul suo account Twitter) riprendono l’espressione inglese, forse perché più breve dell’opzione proposta dal Codice penale.

La comodità, però, non è sufficiente a legittimare la diffusione di un termine che è sbagliato da molti punti di vista.

4 motivi per cui è sbagliato dire revenge porn

La definizione di revenge porn non mette al centro chi subisce il reato e, come spiegano Federica Chierici, Virginia Dascanio e Elisabetta Stringhi del collettivo transfemminista e queer Ambrosia sulla rivista Jacobin:

questa espressione ci fa stridere i denti, in quanto incompatibile con una lettura femminista e transfemminista, focalizzandosi unicamente sulle motivazioni di colui che posta le immagini, assumendone lo sguardo

Ed è vero: il termine dimentica completamente il ruolo della vittima, rendendola invisibile, e implica inoltre che questa persona abbia istigato il suo aggressore, dato che, per definizione, con vendetta s’intende il

danno materiale o morale, di varia gravità fino allo spargimento di sangue, che viene inflitto privatamente ad altri in soddisfazione di offesa ricevuta, di danno patito o per sfogare vecchi rancori

L’idea di vendetta presume che vittima e aggressore si conoscano, ma non è sempre così: chiunque può potenzialmente diffondere o contribuire a diffondere anche foto di persone che non conosce direttamente. In questo caso, "si tratta il problema come se fosse una questione esclusivamente tra due persone, un po’ come succedeva con la violenza domestica. Invece è un problema più ampio, sono più persone che partecipano all'abuso", spiega su ValigiaBlu Silvia Semenzin, ricercatrice in sociologia digitale e autrice del libro Donne tutte puttane (Durango Edizioni).

https://www.instagram.com/p/CPBFGgWlk3f/

La vendetta, inoltre, non è quasi mai il motivo principale: condividere materiali intimi di un’altra persona può essere una forma di ricatto, estorsione, controllo, gratificazione sessuale, voyeurismo [e] miglioramento del proprio status sociale, come spiega il sito dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine

A queste motivazioni il filosofo e attivista Lorenzo Gasparrini aggiunge l’esercizio del potere: «l’uso delle immagini del corpo è, da tempi remoti, il più diffuso strumento di esercizio del proprio potere su qualcun altro e farlo in gruppo permette di identificarsi reciprocamente: abbiamo lo stesso potere su un’altra persona perché utilizziamo quell’immagine e la sfruttiamo per il compiacimento del nostro piacere».

Infine, anche la parola “porn” nasconde delle problematiche: la pornografia, infatti, si basa sul consenso, mentre uno dei punti centrali della condivisione di materiale intimo è proprio la mancanza di consenso da parte delle vittime.

Qualche espressione per sostituire revenge porn

Esistono molte alternative alla parola revenge porn. Una delle prime ad avanzare proposte è stata Licia Corbolante, linguista e autrice del blog Terminologia etc: tra i suoi suggerimenti per italianizzare quest’espressione troviamo pornografia/porno vendichevole, porno vendicativo, porno per vendetta, porno ostile, porno doloso, porno illecito e pornografia non consensuale (che però continuano a mettere l’accento sul contesto pornografico del fenomeno).

Andando oltre l’aspetto puramente linguistico, due proposte che tengono conto anche della natura sociologica e politica del fenomeno sono “abuso sessuale basato sull’immagine” (dall’inglese image-based sexual abuse, proposto dalle studiose Claire McGlynn ed Erika Rackley) e “condivisione non consensuale di materiale intimo”, più utilizzato da attiviste e attivisti in Italia.

In particolare, “abuso sessuale basato sull’immagine” ha il doppio vantaggio di assumere la prospettiva della vittima di questo crimine e di sottolineare, attraverso la parola “abuso”, il fatto che si tratti di vera e propria violenza di genere

Ma soprattutto, come ricorda anche Diana Di Meo nel suo video, l’importante è ricordare che qualsiasi espressione si scelga, la verità rimane una sola:

  la colpa, in questi casi, non è mai della vittima

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