Romaeuropa Festival, il teatro dei corpi che cambia il modo di guardare al “femminile”

Dove sono le donne a teatro? Qual è il loro sguardo? Come si parla di loro? Perché a parlare non sono loro? Cosa succede se, invece, abitano lo spazio? Romaeuropa Festival, andato in scena nella Capitale fino al 17 novembre, è il festival di danza musica e teatro che, ad alta vocazione europea e internazionale, ribalta le narrazioni portando sul palcoscenico temi, sguardi e parole capaci di guardare al passato per aprire nuove domande verso il futuro

Voice Noise, Cime tempestose e Mine-Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle: sono questi i tre spettacoli di Romaeuropa Festival che, pur totalmente differenti per sguardo e modalità, sono accomunati dall’obiettivo di dare spazio a uno sguardo che non è quello “presunto” neutro. Ovvero il maschile. Il ribaltamento di prospettiva è preciso e si innesta dal palcoscenico alla realtà: come riporta la nuova mappatura sulla presenza delle donne nel teatro italiano nel periodo 2020-2024, a cura dell’associazione Amleta in collaborazione con l’Università degli Studi di Brescia, le attrici sui palcoscenici rappresentano il 39,7% del totale degli interpreti. Le drammaturghe sono meno di una su tre (pari al 29,1%) e le registe arrivano solamente al 21,0%. Fino al dato più eclatante: nessun Teatro nazionale è attualmente diretto da una donna.

Portare nuove rappresentazioni e agirle significa raccontare il femminile indagandolo, senza opprimerlo in rigide definizioni: un’operazione che diventa possibile quando lo sguardo le donne non è “l’altra metà” ma l’intero.

Voice Noise, lo spazio delle voci femminili sommerse

Con Voice Noise è tornato in scena al Romaeuropa Festival il coreografo fiammingo Jan Martens. Nato nel 1984, in Belgio, a nutrire il suo lavoro è la convinzione che ogni corpo abbia qualcosa da dire e che questa comunicazione diretta si esprima attraverso forme trasparenti e semplici. La creazione artistica è per lui un santuario in cui la nozione di “tempo” diviene nuovamente tangibile, uno spazio per la contemplazione, per l’osservazione e per la riflessione.

Con Voice Noise Martens sceglie di omaggiare la voce femminile e le figure più innovative, sconosciute o dimenticate degli ultimi cento anni di storia della musica.

A ispirarlo è il saggio di Anne Carson “The Gender of Sound” (1992), in cui la poetessa e classicista canadese espone come la cultura patriarcale abbia cercato di mettere a tacere le donne, dall’antica Grecia fino ai tempi più recenti, classificando la voce femminile come categoria a parte, isolandola in sanatori e in altri luoghi di confino, tutte le volte che non bastava ridicolizzarla o ignorarla, accusandola di essere brutta e cacofonica, irrilevante per gli scopi della collettività.

Nel tentativo dare forma a un canone alternativo, il coreografo scopre un intero archivio di possibilità musicali basate su voci femminili sommerse.

Voice Noise allarga le domande evocate da “The Gender of Sound” di Anne Carson, formando tanti cerchi concentrici nel pensiero:

c’è qualcosa di oggettivo nel modo in cui si muove una donna, che ti fa morire per strada o altrove se il tuo corpo si muove come quello di una donna? E cosa ci fanno due danzatori in uno spettacolo dedicato alla voce femminile?

L’idea di Martens mette in discussione la stereotipizzazione dei movimenti, anche evitando l’effetto di una musica troppo sacra o da rispettare come accade negli spettacoli di danza in cui i performer arrivano quasi a sparire.

Per questo motivo le sei interpreti appaiono con la loro voce, a volte si mettono ai margini del palco ad ascoltare e a guardare le altre gli altri, invitando il pubblico a fare altrettanto, staccandosi dalla grande energia della musica: è lì si capisce che “Voice Noise” è davvero un invito alla pratica dell’osservazione, dove è più importante ascoltare la musica che eseguirla. 

Cime tempestose, la riscrittura delle figure femminili che hanno segnato generazioni di ragazze

«Sono scrittrici come Emily Brontë ad aver cambiato la nostra storia. È nella letteratura di queste donne che si è formato l’immaginario di generazioni di ragazze ed espresso il ribollire dei desideri di emancipazione che ha riscritto il destino delle donne e degli uomini. Sulle pagine di questi libri abbiamo sviluppato il nostro pensiero critico e a queste storie, scritte da donne in tempi in cui non era permesso loro scrivere, che desideriamo tornare ora che siamo adulte».

Le parole di Martina Badiluzzi centrano perfettamente il mondo in cui il suo spettacolo teatrale Cime Tempestose, ispirato al celebre romanzo di Emily Brontë e al debutto lo scorso 19 ottobre, si muove e agisce. Attraverso corpo, testa, codici familiari, ricordi e case.

Lo spettacolo è un omaggio al potere catartico della letteratura, alla magia dell’arte e del teatro e che prosegue e consolida il processo di riscrittura di figure femminili della drammaturga e regista friulana: Cime tempestose è un romanzo complesso e simbolico, scritto di un’autrice cresciuta in una cittadina dello Yorkshire inglese, in epoca vittoriana, sulla soglia della rivoluzione industriale.

Non è difficile immaginare perché una donna di quell’epoca, cresciuta nella brughiera sferzata dal vento e circondata dalla bellezza misterica di una natura violenta e radicale, guardi con sospetto la città e con preoccupazione la società capitalista che si andava costruendo

Emily tenterà per i primi anni della sua giovinezza di uscire dalla casa paterna ma mai ci riuscirà, preferendo alla civiltà la brughiera, la compagnia degli animali e quella dei fratelli: Charlotte Brontë, autrice di Jane Eyre, Anne Brontë, anche lei scrittrice di successo, e Branwell, pittore.

«Rileggere Cime tempestose da adulte è come tornare a casa. È un rito di passaggio quello a cui Emily Brontë ci sottopone come lettrici, lo sprofondare nelle viscere e nelle oscurità di una storia familiare dolorosa e violenta che si realizza, sul finale, nell’immagine consolante di due amanti senza paura: Cathy e Hareton» sottolinea Badiluzzi.

Lo spettacolo inizia da quei due amanti e da un ritorno a casa: «Le figure che vogliamo in scena non sono più Catherine e Heathcliff (qui interpretati da Arianna Pozzoli e Loris De Luna); gli adattamenti hanno consumato i loro nomi e la critica abusato dei termini romanticismo e passione per raccontare la loro storia. Lasciamo spazio a Cathy e Hareton, la seconda generazione che abita il romanzo. Hareton è il “secondo” Heathcliff, l’ennesimo figlio non desiderato, e Cathy la copia identica della madre – spiega la regista - A questi due giovani è affidato il compito di gestire l’eredità delle proprie famiglie, non solo quella materiale, ma soprattutto quella emotiva. Di trasformare le disuguaglianze sociali, il razzismo e il maschilismo di quel piccolo mondo antico in qualcos’altro. Possono due bambini cresciuti in ristrettezza d’amore, in dinamiche familiari tossiche e violente riuscire ad amarsi?»

Guardare è sempre un atto violento: cosa racconta “l’educazione fisica” delle fanciulle

Diretto, potente, multidimensionale: Mine-Haha, ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle di Marco Corsucci e Matilde Bernardi ha debuttato lo scorso 31 ottobre al Mattatoio di Roma ed è il progetto vincitore della seconda edizione del Premio Silvio d’Amico alla Regia, realizzato dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico in collaborazione con Romaeuropa Festival.

Il lavoro si sviluppa dall’omonimo romanzo di Wedekind che viene presentato dal suo autore come un manoscritto, dal titolo “Mine-Haha”, che gli è stato consegnato da una sua vicina di stanza, l’ottantaquattrenne insegnante in pensione Helene Engel, la quale circa tre settimane prima si è suicidata gettandosi dalla finestra. “Mine-Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle” è un diario di memorie fittizie di Helene Engel, “Hidalla” nel parco, e ripercorre, a distanza di anni dalle vicende narrate, la vita della donna dalla sua primissima infanzia fino all’adolescenza.

A partire dal testo di Wedekind, e in dialogo con esso, il progetto di Marco Corsucci e Matilde Bernardi si sviluppa attorno alla formazione di un corpo femminile, mettendo l’accento su tutte quelle aree del testo in cui è particolarmente stretta la relazione tra sguardo, corpo ed educazione.

«L’esigenza di indagare il tema dello sguardo nasce grazie all'incontro con questo testo che mi ha portata a indagare l'incontro tra lo sguardo e la formazione di un'identità attraverso il corpo. Quando avevo letto per la prima volta il testo non lo avevo capito. Alla seconda lettura ne ho compreso la brutalità. Alla terza ho sentito che alcuni passaggi della scrittura li avrei potuti scrivere io» spiega a The Wom Matilde Bernardi, che continua: «Nonostante tutti i gradi di separazione, il fatto che sia un testo datato e scritto da un uomo in questo testo c'era qualcosa di misterioso e di difficilmente collocabile che aveva a che fare esattamente con il modo in cui gli sguardi e il mio sguardo sui corpi degli altri e delle altre hanno educato il mio corpo a partire dalla primissima infanzia. La mia paura è che ciò che stessi indagando, la mia ferita, fosse datata tanto quanto il testo. Ho scoperto invece che non lo è per niente. Anzi: oggi quella stessa ferita è molto più mascherata di quanto non lo fosse al momento della scrittura del testo».

In una dimensione espositiva, il corpo di chi è in scena (Bernardi), in sovraimpressione con quello di Hidalla, diventa il terreno su cui aprire un’indagine sull’identità e sull’atto del guardare per investigare i rapporti di potere che corrono tra chi guarda e chi viene guardato, attraverso la messa a tema del ruolo dello spettatore. «Quando ho letto il testo per la prima volta, su suggerimento di Matilde (Bernardi, ndr), mi ha fatto violenza. Ho percepito molto forte le domande che mi ha generato e da cui è nato l’obiettivo del lavoro: indagare lo sguardo. O meglio l'atto del guardare, inteso come atto mai innocente ma con implicazioni che hanno a che fare con il controllo, il potere, il possesso. E quindi inevitabilmente con il maschile» dice a The Wom Marco Corsucci. Un lavoro preciso che ha messo in discussione “l’atto del guardare” oltre il palcoscenico:

A proposito di cambio di sguardo penso che il primo sguardo ad essersi spostato è il mio – aggiunge Corsucci - A un certo punto del romanzo ho sentito da uomo una specie di fratellanza malvagia con quegli stessi spettatori che guardano: mi è stato permesso e questo mi ha fatto male

Da questa ferita si crea un nuovo spazio, nuove domande. «Il lavoro, quindi, è stato indagare anzitutto sul mio sguardo: la parola “educazione” presente nel titolo, accompagnata da “fisica delle fanciulle” in realtà riguarda tanto un corpo femminile quanto il mio sguardo maschile sul femminile. È stato interessante aver constatato che sì il testo è datato, quell'educazione in qualche modo è datata. Ma è lì che ci sono radici molto forti che riguardano sicuramente un corpo ma, per quanto mi riguarda, l'educazione allo sguardo e a come guardiamo: è quello da cui siamo partiti».

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