Se l’è cercata: perché il linguaggio tossico del victim blaming è una forma di violenza

Se l’è cercata. Una frase breve per alcuni forse innocua all'apparenza ma racchiude al suo interno anni di pregiudizi, stereotipi e una cultura che ancora fatica a riconoscere la violenza per ciò che realmente è: un abuso di potere e controllo. Questa espressione, così radicata nel linguaggio comune, rappresenta uno degli esempi più evidenti di Victim Blaming, cioè la tendenza a colpevolizzare chi subisce violenza piuttosto che chi la perpetra. È una narrazione tossica che sposta la responsabilità dall'aggressore alla vittima, alimentando il silenzio, la paura e l'isolamento di chi soffre, trasmettendo a tratti anche sensi di colpa

In un mondo in cui ogni anno migliaia di donne subiscono violenza fisica, psicologica, economica e sessuale, non possiamo più permetterci di tollerare frasi come questa, perché il Victim Blaming è una delle prime forme di violenza di genere che non possiamo più accettare.

Con questo articolo vorrei andare oltre le parole, esplorando come la violenza contro le donne venga ancora oggi minimizzata, giustificata e, troppo spesso, sottovalutata. E come, per cambiare davvero, sia necessario il contributo di tutti noi, partendo da una riflessione profonda su ciò che diciamo, consideriamo, approviamo e accettiamo.

Dati allarmanti

In Italia, la violenza contro le donne rappresenta un'emergenza sociale. Secondo i dati del Ministero dell'Interno, dal 1° gennaio al 3 novembre 2024, si sono registrati 263 omicidi, di cui 96 vittime erano donne. Di queste, 82 sono state uccise in contesti familiari o affettivi, e 51 hanno perso la vita per mano del partner o dell'ex partner. Questi numeri indicano che, nei media, una donna viene uccisa ogni due giorni, delineando un quadro drammatico che richiede interventi immediati e concreti e soprattutto il contributo da parte di tutti.

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La Convenzione di Instanbul

La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica , nota come Convenzione di Istanbul , definisce la violenza di genere come qualsiasi atto di violenza diretto contro una donna in quanto tale o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Questa definizione è stata adottata da tutti i Paesi firmatari della Convenzione, che dall'ottobre 2023 è entrata in vigore su tutto il territorio dell'Unione Europea, anche senza la firma di alcuni Stati membri come Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Slovacchia. Ciò implica che tutti gli Stati dell'UE sono tenuti a rispettare gli impegni assunti contro la violenza di genere e possono essere sanzionati in caso di inadempienza.

Nonostante l'Italia abbia ratificato la Convenzione di Istanbul nel 2013, il nostro Paese è stato più volte sanzionato per non aver agito a sufficienza nel contrastare la violenza di genere

Tra gennaio e novembre 2022, la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha condannato l'Italia in diverse occasioni per aver offerto una protezione inadeguata alle donne vittime di violenza domestica, evidenziando l'inerzia dei ritardi della magistratura nel concedere protezione, la sottovalutazione del pericolo e la lentezza della risposta delle forze dell'ordine alle richieste d'aiuto delle vittime. In un caso specifico, in cui a perdere la vita non è stata solo la madre ma anche suo figlio, la Corte ha sottolineato la necessità di condurre valutazioni accurate del rischio e di adottare tempestivamente strumenti per proteggere l'incolumità delle donne e dei loro figli.

E allora, la violenza contro gli uomini?

Certo, anche gli uomini possono essere vittime di violenza, sia fisica che psicologica. Secondo dati ISTAT, in Italia, 3 milioni e 574 mila uomini hanno subito molestie almeno una volta nella vita. Però tutti dobbiamo capire che la violenza contro le donne presenta una dimensione e una frequenza tale da richiedere un'attenzione primaria, basandoci anche sui dati precedentemente citati, che evidenziano come in Italia una donna muoia ogni due giorni per mano di un uomo, possiamo dedurre che il femminicidio rappresenta una vera e propria piaga sociale, radicata in un contesto culturale e strutturale che normalizza la violenza contro le donne.

Il femminicidio non è solo un crimine, ma un fallimento collettivo: delle istituzioni, che non sempre intervengono in modo tempestivo; della società, che spesso giustifica o minimizza; e di una cultura che perpetua l'idea di controllo e possesso sulla donna

monologo cecchettin

La violenza ha mille volti

La violenza contro le donne si manifesta in molteplici modi, ognuno dei quali può essere devastante.

  • Violenza psicologica: una delle forme più difficili da riconoscere e far applicare come reato. Parliamo di minacce, intimidazioni, controllo e invasione della privacy, offese, limitazione della libertà di movimento, atti persecutori, isolamento, abuso verbale, gasglighting ovvero una forma di manipolazione che distorce la realtà e critiche continue che minano l'autostima.
  • Violenza economica: Si verifica quando l’aggressore esercita il controllo sulle risorse finanziarie della donna, negandole l’accesso al denaro, impedendole di lavorare o decidendo unilateralmente come gestire il patrimonio familiare. Questo tipo di abuso priva la donna della sua indipendenza economica, rendendola vulnerabile e dipendente.
  • Violenza fisica: È la forma più visibile e riconoscibile, include qualsiasi atto che provochi danno fisico o dolore intenzionale: colpi, spintoni, percosse, fino a violenze più gravi che possono culminare nel femminicidio.
  • Violenza sessuale: Comprende tutte le situazioni in cui una donna viene costretta o obbligata a subire atti sessuali contro la sua volontà. Lo stupro è la forma più grave, ma esistono anche molestie, avances indesiderate e abusi perpetrati attraverso il ricatto o la manipolazione.
  • Atti persecutori (stalking ): Comportamenti ossessivi e ripetuti come pedinamenti, telefonate moleste, invio di messaggi non richiesti o appostamenti, che creano un clima di paura e insicurezza per la vittima.
  • Violenza online (cyberviolenza ): Con la diffusione della tecnologia, la violenza si è trasferita anche nel mondo digitale. Le principali forme includono: Cyberstalking: Perseguitare la vittima attraverso messaggi, email, o monitoraggio dei suoi profili online. Catfishing: Creare false identità online per ingannare o manipolare le vittime. Sexting minorile: Condivisione o estorsione di immagini intime di minori, una forma grave di abuso sessuale digitale. Stupro virtuale: Violenza sessuale perpetrata attraverso realtà virtuali o piattaforme online, creando scenari umilianti e degradanti per la vittima. Doxing: Diffusione non autorizzata di informazioni personali della vittima, come indirizzo o contatti, con l’intento di esporla a rischi o molestie.

Queste forme di violenza spesso si sovrappongono, amplificando gli effetti devastanti sulla vita delle donne. In molti casi, sono accompagnate dal Victim Blaming, che aggiunge ulteriore sofferenza attribuendo colpe ingiustificate a chi subisce.

Victim Blaming: di che si tratta

In molte situazioni di violenza, oltre al trauma subito, le vittime si trovano a fare i conti con un fenomeno altrettanto devastante: il Victim Blaming, o colpevolizzazione della vittima. Questo atteggiamento consiste nell’attribuire responsabilità alla persona che ha subito violenza, insinuando che il suo comportamento, il suo abbigliamento o le sue scelte abbiano in qualche modo provocato l’abuso.

Questo capovolgimento della realtà ha conseguenze particolarmente gravi: da un lato, distorce la comprensione collettiva dei fenomeni, alimentando pregiudizi e stereotipi; dall’altro, influisce profondamente sulla vittima stessa, spingendola a interiorizzare la colpa e a mettere in dubbio la propria percezione della realtà.

È una narrazione tossica che colpisce sia le donne che denunciano sia quelle che restano in silenzio, alimentando un circolo vizioso di paura e isolamento.

Alcuni esempi? Eccoli:

  • Violenza sessuale: "Ma come era vestita?" oppure "Non avrebbe dovuto bere così tanto"
  • Violenza domestica: "Se continua a rimanere con lui, allora le sta bene"
  • Stalking: "Se la cercava, poteva bloccarlo sui social"
  • Violenza online: "Se ha inviato quella foto, è colpa sua se ora gira ovunque"

Il victim blaming affonda le sue radici in stereotipi e pregiudizi di genere che vedono le donne come responsabili del comportamento altrui. Frasi come "Una donna perbene non si mette in certe situazioni" o "È sempre così emotiva, sicuramente esagera" riflettono una cultura che tende a giustificare l’aggressore, proteggendolo dalle conseguenze delle sue azioni.

Questa narrazione è spesso perpetrata anche dalla narrazione sbagliata di alcuni media, che spesso utilizzano un linguaggio colpevolizzante o fuorvianti. Titoli come "Delitto passionale", "La lite è degenerata: marito esasperato uccide la moglie" o "Era una relazione complicata" o ancora "L'ha uccisa perché l'amava troppo" trasformano atti di violenza in eventi addirittura romantici, ignorando così completamente la gravità dell'azione, spostando l’attenzione dalla gravità dell’atto al contesto personale o alle presunte (inesistenti) responsabilità della vittima.

Dietro ogni statistica sulla violenza di genere c'è un volto, una storia, una vita spezzata o segnata per sempre.

Una madre, una sorella, un'amica, una vicina di casa, non numeri ma donne che hanno diritto a essere rispettate e per quelle che non ci sono più, ricordate. Dietro ogni frase di colpevolizzazione, c'è una ferita che si riapre

Il victim blaming non è solo un problema di linguaggio, è una problema collettivo che infligge silenzio e isolamento alle vittime e protegge chi agisce con violenza.

Non giriamoci dall'altra parte mai, ognuno può fare del suo meglio. Come? Con le parole che scegliamo, con l’attenzione che prestiamo e con il coraggio di non restare indifferenti davanti alle ingiustizie. Dobbiamo smettere di chiedere “Perché non ha denunciato?” "Perchè era vestita così?" "Perchè è rimasta in casa con lui?" e iniziare a chiederci “Cosa posso fare per aiutarla?”. Solo così possiamo costruire una società in cui nessuna donna debba mai più avere paura e né tantomeno sentirsi colpevole per il male che ha subito.

Tutto può cambiare, ma servono mani pronte ad aiutarci e braccia pronte a proteggerci e non dita puntate e dirette a giudicare. Cambiare non è solo possibile, è necessario. E il cambiamento inizia da noi, il 25 novembre e ogni singolo giorno dell'anno.

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