Sentenza doppio cognome: perché è una battaglia femminista

Ampliare l’identità e la possibilità di definirsi, smantellando i ruoli gerarchici in famiglia: la Corte costituzionale, con la storica sentenza dello scorso 27 aprile, ha dichiarato illegittima l’attribuzione automatica del cognome del padre. A cambiare non è solo la normativa, considerata “discriminatoria nei confronti della donna e anche lesiva della dignità del figlio” ma anche il paradigma culturale patriarcale che - omettendo il cognome delle donne – ne ha ridimensionato la presenza nella Storia, fino a renderle invisibili. Ecco perché il doppio cognome non è una battaglia marginale in fatto di parità di genere

I cognomi raccontano storie, trasmettono valori, cementano tradizioni e culture: il fatto che, per secoli, la loro trasmissione sia stata appannaggio esclusivamente maschile ha significato definire le proprie identità e individualità nella storia di un uomo, nel suo patrimonio. Essere, in sostanza, discendenti soltanto per linea maschile.

Per esistere socialmente e politicamente, è necessario essere nominate: il cognome è una questione di potere, visibilità sociale e autorevolezza, negata alle donne e dalle donne stesse spesso sottovalutata

Sparire come genitrici nell’identità pubblica di chi si è messo al mondo è un’ingiustizia, oltre che una profonda discriminazione: nella società patriarcale - come scriveva già nel 2012 Elena Ferrante in Storia del nuovo cognome, il cognome non racconta chi siamo ma a chi apparteniamo.

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Ribaltare tutto per ricostruire. La sentenza storica che legittima il doppio cognome, è una possibilità e un diritto: l’opportunità di definire chi siamo, il diritto di farlo in libertà. Superando prassi e tradizioni che non raccontano chi siamo, piuttosto a chi saremmo dovutə appartenere.

Doppio cognome: cosa cambia

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La sentenza sul doppio cognome abolisce l’automatismo dell’attribuzione del cognome paterno, sostituendolo con una nuova regola generale che prevede l’attribuzione dei cognomi di entrambi i genitori. Dal 2017 in Italia era già possibile affiancare al cognome del padre quello della madre, per i figli, ma solo come secondo: la sentenza della Corte chiarisce che, se i genitori vogliono trasmetterli entrambi, possono scegliere anche di mettere per primo quello della madre.

Nel caso i genitori non siano d’accordo sull’ordine, la sentenza delega la decisione al giudice: in quel caso "resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico", rimandando di fatto la decisione su questa casistica al Parlamento.

In Italia è da oltre quarant’anni che si discute dell’automatismo del cognome paterno e, la questione di legittimità costituzionale che ha portato alla storica sentenza, è stata sollevata dalla Corte d’Appello di Potenza riguardo una coppia che voleva dare al proprio figlio il solo cognome materno e che si era vista negare questa possibilità dagli uffici comunali della propria città.

Dopo la pronuncia della Consulta, restano alcuni aspetti che l’intervento legislativo del Parlamento dovrà chiarire: tra questi, l’eventuale moltiplicazione dei cognomi una volta  che le persone con il doppio cognome avranno figli. Si tratta di un processo – normativo e culturale - certamente da rodare, limare, discutere e chiarire. Virtuoso nel suo creare caos e ribaltamenti. Come scrive la giornalista Simonetta Sciandivasci:

Il doppio cognome genererà caos. Ed è questo il bello, è qui che la questione rivela cosa agita e complica: la libertà, e la fatica che costa

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Cognome materno: perché è una battaglia femminista

Sebbene il doppio cognome rappresenti una conquista fondamentale in fatto di parità e visibilità, il tema è controverso anche all’interno delle storiche battaglie femministe: come racconta Giulia Siviero in un articolo del Post, già agli inizi del 2000 la giornalista Carol Lloyd ha cercato di analizzare con l’aiuto di alcuni studiosi le risposte più frequenti date da alcune donne che avevano deciso di perdere il loro cognome. Donne, precisava la giornalista, che avevano scelto «di rinunciare a un collegamento simbolico con i loro figli per evitare la disapprovazione dei familiari conservatori anche quando erano però disposte a opporre resistenza alla tradizione su altre questioni».

Dalle risposte registrate, emergeva un’evidenza: la ragione storica per cui un bambino avrebbe dovuto assumere il cognome del padre era quella di provare l’identità del padre stesso (la madre ha un legame evidente con il proprio figlio) e dargli modo di dimostrare quel legame. Una specie di cordone ombelicale linguistico, correlato a un concetto classico della psicanalisi di Jacques Lacan: «la madre porta il bambino in utero, ma è con il nome che gli uomini vengono legati ai loro bambini. Il legame deve accadere in qualche modo».

Anche per questo motivo, sembra che quella del cognome non sia mai diventata una vera e propria rivendicazione all’interno del movimento femminista (con delle eccezioni): tuttavia, visto che una delle pratiche centrali del femminismo è stata quella di rovesciare le disuguaglianze della storia, alcune attiviste che hanno fatto la scelta personale di dare il loro cognome ai figli, ma non di farne una battaglia politica – se ne sono in qualche modo pentite, come ha raccontato la scrittrice Lauren Apfel sul Guardian qualche mese fa: «ho lasciato che le affermazioni di equità in una casa in particolare - la mia - prevalessero sul significato culturale più ampio di invertire un modello di disuguaglianza a lungo termine. Ho mantenuto il mio cognome eppure, come la stragrande maggioranza delle donne, ho lasciato che i miei figli prendessero il nome di mio marito. Questa dovrebbe essere una questione femminista».

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