Se non si vede non esiste? Perché la narrazione della violenza di genere deve cambiare
La violenza di genere è solitamente rappresentata dai media e dalle campagne di sensibilizzazione in modo quasi teatrale: sui cartelloni campeggiano immagini di donne dal volto tumefatto, sanguinanti e sofferenti. Questo tipo di narrazione, sebbene abbia come scopo quello di scuotere emotivamente portando alla riflessione, ha l’effetto negativo di dare una immagine stereotipata delle vittime di violenza.
Le radici socioculturali della violenza di genere
La violenza di genere ha radici culturali: la nostra società italiana è, ancora oggi, di stampo patriarcale e lo dimostra la predominanza degli uomini nella politica e nei ruoli di leadership che detengono per la maggior parte il potere economico e sociale.
In una società di questo tipo le donne sono discriminate, viste come proprietà dagli uomini e vittime di stereotipi di genere talmente radicati da essere inconsci e spesso introiettati dalle stesse donne.
La divisione dei ruoli e l’esistenza di relazioni di potere diseguali tra donne e uomini sono fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità in cui si alimenta il ciclo della violenza
Alla base di ogni femminicidio vi è un’escalation di situazioni tossiche, che parte dalle molestie (battutine, catcalling), alle discriminazioni (discriminazioni nell’assunzione o demansionamento in quanto donne o madri) arrivando agli abusi psicologici e fisici fino agli epiloghi più drammatici.
“Femmicidio”, è un termine introdotto per la prima volta dalla criminologa femminista Diana H. Russell nel 1992 per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne.
Afferma Russell:
Il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine
Le problematicità della rappresentazione della violenza di genere
È evidente quindi, come nel nostro Paese sia necessario un cambiamento culturale radicale, che permetta una reale parità di genere. In questo scenario è importante anche la sensibilizzazione e il riconoscimento delle violenze. Spesso, infatti, molte persone minimizzano certi comportamenti di violenza semplicemente perché non sanno che si tratta di atteggiamenti gravi, perché la società li normalizza.
Tuttavia, a volte il tentativo dei media di cercare di smuovere l’empatia verso certe tematiche e scuotere emotivamente le persone può risultare controproducente
Sono tante le campagne su diversi mezzi di comunicazione che mostrano donne dal volto tumefatto, sofferenti, in lacrime. A queste immagini si accompagna spesso un messaggio simile: denuncia, chiedi aiuto, non stare zitta.
Questo tipo di narrazione, nonostante la buona fede, appare problematica sotto due aspetti principali.
Il primo è che questo tipo di messaggi in un certo modo responsabilizza la donna sulla sua situazione. Il messaggio tanto implicito quanto subdolo è “se non denunci è colpa tua che stai zitta e rimani in questa situazione”.
Le situazioni reali sono diverse: la maggior parte delle donne che subisce abusi ha denunciato, spesso più volte. Tuttavia, spesso non hanno ricevuto il giusto aiuto dalle istituzioni preposte a proteggerle.
Le storie di questo tipo sono innumerevoli: questa estate Alessandra Matteuzzi è stata uccisa dall’ex compagno, uomo che la donna aveva già denunciato il mese prima a causa dei diversi episodi di stalking e inquietanti molestie.
Questo settembre Lilia Patranel è stata uccisa dal marito dopo aver sporto denuncia a seguito di un’aggressione che l’aveva portata all’ospedale – denuncia a seguito ritirata per paura, e quindi caduta nel nulla nonostante le evidenti prove di percosse. E ancora, Debora Ballesio, uccisa nel 2019 dall’ex marito: aveva già denunciato 19 volte.
Il secondo aspetto problematico è la rappresentazione stereotipata delle vittime di violenza. Queste vengono rappresentate sempre con gravi ferite, con espressioni disperate, vestiti stracciati. Ma non è sempre così.
Una rappresentazione di questo tipo crea una problemi immensi in quelle situazioni in cui la violenza non è così platealmente evidente come in un film horror
Quella violenza che non si conosce
Violenza di genere può essere anche il ricatto psicologico che si fonda su basi economiche. Violenza possono essere gli schiaffi presi giornalmente che però non lasciano segni.
Violenza possono essere insulti, minacce e atteggiamenti di controllo sulla libertà personale
Una donna vittima di violenza può decidere di uscire con le amiche per una sera e vestirsi bene, truccarsi, per cercare di stare bene almeno qualche ora. Può non avere per forza un volto tumefatto. Può non apparire sofferente, ma determinata. È per questo meno credibile quando chiede aiuto?
Tutte queste situazioni, in cui la violenza serpeggia in modo subdolo, in realtà sono le più comuni. E renderle un’eccezione non aiuta, anzi aumenta il sospetto dalle stesse persone che dovrebbero essere di aiuto e spiana la strada alla distinzione tra “vere vittime” e donne che forse stanno esagerando e che anzi, forse se la sono cercata con i loro atteggiamenti esuberanti.
La realtà è complessa ed è necessario parlare di questa complessità se si desidera realmente cambiare l’attuale situazione