Adelaide Valentini, contadina attivista: “cambiare il mondo inizia da cosa mangiamo”

A Caprese Michelangelo, in provincia di Arezzo, Adelaide Valentini ha concretizzato il desiderio di creare una piccola azienda agricola biologica che produce ortaggi, uova e prodotti apistici nel pieno rispetto della terra e degli animali. Una realtà, quella di Mamanui Regenerative Farm, nata (anche) per dimostrare che un’agricoltura realmente rigenerativa è possibile: abbiamo chiesto ad Adelaide di raccontarci la sua storia

“A 18 anni volevo rivoluzionare la società dall’esterno, a 25 anni dall’interno, a 30 anni coltivo la terra”, mi disse un giorno una persona saggia. È un po’ lo stesso percorso di Adelaide Valentini: laureata in Scienze Agrarie, prima di dedicarsi all’agricoltura voleva diventare attivista ambientale. Poi è arrivata l’idea di creare, nel 2018, Mamanui Regenerative Farm, azienda agricola nonché luogo di amore e rispetto per il suolo in provincia di Arezzo.

Seguendo le tracce di post e condivisioni su Instagram, scopro la storia di Adelaide: da qualche mese ha lanciato un podcast dove racconta il suo percorso verso la professione di contadina – come ama definirsi – condividendo gioie, consigli e difficoltà con tutti coloro che sono o desiderano diventare agricoltori. Un podcast che accarezza vari temi: dalla pervasività degli stereotipi sull’agricoltura – anche all’università, dove viene ancora oggi insegnata l’inevitabilità di un’agricoltura intensiva – fino ai pregiudizi di genere, che ancora oggi limitano molte donne nel campo agricolo. Raccontando la sua vita – dalla famiglia fino agli studi in giro per l’Europa e poi la creazione di Mamanui – Adelaide ci ricorda una grande verità: acquistare il cibo da un piccolo coltivatore biologico è la prima (e più importante) forma di attivismo ambientale.

Non è affatto esagerato, infatti, sostenere che mangiare – come dice la stessa Adelaide – è un atto politico. È un atto politico decidere di non finanziare multinazionali che devastano il suolo con pesticidi, che inquinano l’ambiente e che danneggiano in modo irreversibile la biodiversità, per affidarsi a piccoli agricoltori che coltivano faticosamente nel rispetto della terra. E sono dei sognatori coraggiosi questi agricoltori, perché decidono di sfidare burocrazia e ogni genere di avversità – comprese quelle derivanti dal cambiamento climatico - pur di dimostrare che coltivare senza danneggiare l’ambiente è possibile.

Proprio per questo, Adelaide è la vera eroina dei nostri giorni: una donna che si riappropria dei valori contadini traditi da una modernità falsamente progressista e che esprime i veri significati del femminile, in armonia con i cicli naturali

Adelaide percorre la sua strada in direzione ostinata e contraria alla società, ma in piena sintonia con il proprio essere. Ecco la sua storia.

Quando hai iniziato a nutrire il desiderio di aprire un’azienda agricola?

Sono nata in una famiglia che dalla grande città (Roma) ha voluto cambiare vita per trasferirsi negli appennini toscani e regalare un’infanzia diversa ai propri figli. Per i miei genitori, mangiare è sempre stato un atto politico: sono cresciuta con la lista delle multinazionali da cui non comprare attaccata al frigorifero. Il cibo è sempre stato molto importante, quasi un elemento fondamentale per noi. Mia mamma ha fondato un GAS (Gruppo di Acquisto Solidale) nelle nostre zone e mio padre è apicoltore, una passione che mi ha trasmesso profondamente. Nonostante ciò, nessuno in famiglia mi ha mai esortata a diventare imprenditrice agricola, anzi, io mi vedevo più come ambientalista. La realtà è che avevo paura: quello dell’agricoltore è un lavoro molto faticoso dove non si guadagna bene. Inoltre, in questa zona non si produce cibo in vendita diretta, ma è un’agricoltura legata al tabacco, oppure al fieno, al grano o al mais. È difficile entrare in contatto con gli agricoltori, quindi non avevo storie a cui ispirarmi. Quando ho iniziato a studiare sostenibilità ambientale in Scozia, ci insegnavano tutti i disastri che abbiamo creato attraverso l’agricoltura, e questo mi allontanava ancora di più dalla professione. I professori mi dicevano che l’agricoltura intensiva, in un mondo sovrappopolato, è l’unica via. Anche quando ho iniziato a studiare Scienze Agrarie l’ho fatto con l’idea di fare ricercatrice…

… finché?

Finché una mia amica non mi portò a fare una piccola vacanza presso la Cooperativa Sociale Al di là dei sogni, a Caserta, dove si coltivano terreni confiscati dalla mafia con l’aiuto di persone marginalizzate. Non solo svolgono un enorme lavoro per portare avanti una coltivazione biologica, ma aiutano anche persone che provengono da situazioni difficili. Il tutto con la mafia che ha bruciato i loro capannoni per intimidirli. Qui mi si è accesa la scintilla: se ce la fanno loro – ho pensato – posso farcela anche io. È stato lì che ho deciso di aprire la mia azienda agricola. Mi si è sbloccato il sogno. Da lì ho iniziato un corso in permacultura, che mi ha aiutata a partire davvero, facendomi sentire parte di qualcosa, di un movimento più grande di contadini che resistono.

Ti definisci contadina e non imprenditrice agricola: perché?

Mi definisco contadina perché amo profondamente stare a contatto con i cicli naturali. La mia professione non nasce dalla volontà di diventare un’imprenditrice, ma dal desiderio di vivere la vita in modo diverso, di produrre il cibo in modo rispettoso. La parola contadina racchiude dei valori importanti, è un modo di essere che di conseguenza diventa il mio lavoro. Io coltivo perché la connessione con la natura è ciò che mi rende felice. C’è un passaggio nel film Le Otto Montagne, tratto dall’omonimo libro di Cognetti, in cui si dice che solo i cittadini parlano di “natura”.

Ma cosa significa davvero natura? Per me natura coincide con il mio essere, significa coltivare il mio cibo, osservare un cielo stellato, è sentirsi parte di un tutto. Prima di tutto sono questo, poi viene il resto. È essere, prima di fare

Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nel gestire un’azienda agricola?

La burocrazia è sicuramente il primo ostacolo: quello agricolo è un sistema altamente complicato, soprattutto per aziende che producono prodotti diversi come la mia, con miele, ortaggi, galline, vivaio, castagne e olive. La seconda difficoltà sono i cambiamenti climatici: già dal 2018, quando ho aperto Mamanui, ho notato dei cambiamenti, le produzioni sono calate mentre aumentano i costi. La crisi climatica sta avendo grossi impatti sulla produzione agricola: io mi sento però in pace, perché so che sto facendo la mia parte nel difendere la biodiversità, nel prendermi cura del mio piccolo pezzetto di mondo con amore. Purtroppo, però, non basta che lo faccia io. Serve cambiare il nostro modo di consumare e mangiare, per quanto il supermercato sia una grande comodità. Bisogna riorganizzare la propria vita per sostenere i piccoli agricoltori che ce la mettano tutta: a volte non so come facciamo a tenere duro, a non mollare tutto e metterci a cercare un posto fisso. Ci sono ragazzi che portano avanti tradizioni rurali che andrebbero perse, è davvero un mondo bellissimo che ha bisogno del sostegno di tutti. Vogliamo cerare un sistema agro-silvo-pastorale, come veniva fatto una volta, nel frutteto venivano fatti pascolare gli animale, turnando i terreni per favorire la rigenerazione. Faccio tutto con il mio compagno.

Cosa pensi delle recenti proteste degli agricoltori?

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Odio le polarizzazioni, perché la situazione è sempre più complessa di quello che sembra. Sono la prima a essere contraria ai pesticidi, però bisogna anche capire gli agricoltori. Nessuno li sta ascoltando da anni. Dal momento in cui è iniziata la Rivoluzione verde – che di verde non ha niente – hanno detto agli agricoltori di usare fitofarmaci e Ogm per produrre di più, e loro lo hanno fatto. Ora gli dicono invece di non usarli più, e che guadagneranno anche meno. Ovvio che questo provoca proteste.

Come viene recepito invece il lavoro di Mamanui?

Devo dire che incontro ancora molta difficoltà nel far comprendere ciò che facciamo: siamo distanti dalle città, e c’è spesso ancora molta ignoranza sul significato di biologico. Alcuni pensano che tutto ciò che viene dalla terra sia buono, ma se quella terra è inquinata da pesticidi non lo è più, ovviamente. Mio padre lottava per avere la mensa biologica a scuola, trovando resistenza da parte degli stessi genitori. Di questa ignoranza, però, i consumatori non sono del tutto colpevoli: è lo Stato a dover insegnare determinate cose.

Com’è nata l’idea del podcast?

Il podcast nasce dall’idea di raccontare anche il lato più emotivo e profondo del mio lavoro. Di podcast sull’agricoltura ce ne sono tanti, ma il mio vuole essere un racconto sincero sulle difficoltà che si incontrano coltivando la terra, facendo emergere il lato più femminile dell’agricoltura. Un lato che abbiamo tutti, donne e uomini, e che purtroppo non trova ascolto nel mondo contemporaneo, neanche tra le stesse donne. Perché noi donne siamo le prime a non ascoltarci: pensa che ho scoperto solo a 28 anni come funziona il ciclo mestruale! C’è una parte del femminismo che non mi piace, ovvero quella che aspira a essere come gli uomini. Ma noi donne non potremo mai esserlo! Vorrei vedere un femminismo dove noi donne torniamo a noi stesse, al vero senso della femminilità. C’è un libro che consiglio di leggere: La tenda rossa di Anita Diamant, in cui Dina, rievocando le vicende della propria famiglia, narra di tempi in cui le donne, quando avevano le mestruazioni, andavano a riposare per dedicarsi a rituali bellissimi. C’è tanto bisogno, a mio parere, di ricordarci del vero potere dell’alleanza femminile, un potere che ci viene ricordato proprio dalla natura.

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