Afghanistan: a un anno dal ritorno dei Talebani, la storia di Parwana, attivista che si batte sui social
Mi chiamo Parwana e sono nata a Kabul 22 anni fa. Ancora oggi vivo qui e ogni giorno per me è un giorno di lotta e di resistenza ai Talebani e ai soprusi che compiono nei confronti di tutta la popolazione afgana, ma soprattutto contro le donne, da quando sono al potere. Insieme ad altre ragazze ho continuato a manifestare per strada, a scrivere ciò che penso e a rivendicare i miei e i nostri diritti. Questo mi è costato caro, ma non rinnego niente.
La mia vita oggi
Uno dei miei ultimi tweet è la citazione di una canzone di libertà molto famosa in Afghanistan. E nella didascalia scrivevo “lotterò sempre per la libertà”. In altri commento la follia delle politiche dei Talebani che escludono le donne dalle scuole, dal lavoro, dalla vita pubblica.
I social oggi sono la mia unica voce di protesta dato che scendere in piazza è diventato per me estremamente pericoloso
Il 18 gennaio 2022, dopo 5 mesi di governo talebano, sono scesa in piazza con altre donne, sorelle e amiche, per chiedere il rispetto dei nostri diritti con lo slogan: "Pane, lavoro, libertà" per chiedere di poter continuare ad andare a scuola, a lavorare a decidere del nostro futuro in un momento in cui tutto è fermo, il paese, l’economia...
Quel giorno sono stata arrestata insieme a mio cognato. Sono stata in carcere, una struttura militare talebana, per ben 27 lunghi giorni
So che ci sono state delle mobilitazioni per me e le mie compagne e che ci sono state delle trattative con i Talebani da parte dell’Unama (United Nation Assistance Mission in Afghanistan). Sono molto grata a chi ha pensato a me in questa situazione.
Ho subito molestie e torture che non voglio nemmeno raccontare, quando il 13 di febbraio mi hanno rimandato a casa non potevo credere di essere ancora viva
Da allora manifestare, protestare è diventato più difficile e pericoloso, e soprattutto la mia famiglia è molto spaventata e per me uscire di casa è sempre più duro anche per non farli stare in pena, la mia famiglia ha già pagato un tributo grande a questo paese: mio fratello ha perso la vista in un attentato a Kabul, mio padre è stato ucciso da una delle sue guardie. Mia madre mi ha detto “Non posso vivere sapendo che se esci potresti non ritornare”. Questa è una sorte che tocca a molti di noi afgani: attentati, arresti, sparizioni, violenze, soprattutto se sei dissidente, non allineato. O donna.
Per me, come per tutte le altre, uscire ora è quasi impossibile, devo essere sempre accompagnata da un uomo, devo coprirmi il volto per non essere riconosciuta, e comunque uscire per fare cosa? Non posso fare più niente, studiare, lavorare, passeggiare con le amiche, e meno ancora manifestare
Per questo sono molto attiva sui social media: credo che in ogni caso sia importante far sentire la nostra voce e raccontare cosa sta succedendo in Afghanistan oggi. Per noi è importante che il mondo sappia quello che stiamo attraversando in questo momento difficile.
Chi sono
Sono originaria del distretto di Nijrab. Sono nata in una famiglia molto aperta e direi moderna. Appartengo ad una famiglia a abbastanza grande e numerosa, composta dai miei nonni, i miei genitori, i miei fratelli e sorelle. Mio padre era una persona istruita, mia mamma una casalinga. Anche mio nonno era una persona istruita. I miei fratelli e sorelle hanno studiato, ma non hanno fatto l’università perché si sono sposati. Una delle mie sorelle vive fuori dall’Afghanistan
Siamo sempre stati una famiglia abbastanza tranquilla sia per il modo di pensare che nel modo di fare le cose, quindi ho avuto abbastanza libertà per fare le cose che facevo.
Recentemente ho perso mio padre, è stato avvelenato da una delle sue guardie, e mio fratello ha perso la vista in uno dei tanti attentati di Kabul. Questi due eventi mi hanno segnato profondamente
Ho sofferto molto sia a livello psicologico ed economico, perché loro erano un sostegno importante per me e di colpo mi ritrovavo senza. Dovevo affrontare la vita da sola. Non avere il loro appoggio è stato davvero duro per me. Non sapevo come andare avanti. Soprattutto non sapevo se avrei potuto continuare a studiare. Una cosa che amavo molto: gli anni dei miei studi sono stati infatti i più belli della mia vita, li ho goduti appieno. Ed è in quel periodo che sono diventata un’attivista.
VEDI ANCHE CultureL’infanzia di H., insegnante di Kabul che affronta i divieti dei TalebaniSono sempre stata presente e molto attiva anche sui social media, ho fatto un corso di giornalismo e in alcuni eventi organizzati con i compagni dell’università mi piaceva fare la conduttrice e presentatrice. Mi piaceva molto parlare davanti a tante persone
La prima volta che ho parlato in pubblico è stato davanti a 1000 persone, per le celebrazioni di un 8 marzo. Erano presenti tantissime persone, è stata una bella esperienza, anche se era la prima ed ero sotto stress. Non sapevo da dove cominciare: anche se mi piaceva vedere così tante persone, questo non mi dava il coraggio di parlare, perché pensavo di non farcela, che non sarebbe stato facile. Sono anche arrivate delle mie colleghe per dirmi di alzare la voce, perché nessuno capiva cosa stessi dicendo. In quel momento la cosa mi ha fatto ridere e mi ha fatto rendere conto che ero sotto pressione ma stavo facendo una cosa che mi piaceva.
Già in quel periodo mi ero resa conto che nonostante alcuni progressi evidenti nei diritti delle donne nei 20 anni della presenza statunitense, soprattutto a Kabul, c’era molto da lavorare e tante battaglie da portare avanti: sia a scuola che all’università le donne erano sempre separate dagli uomini e ogni contatto era se non proibito, mal visto. Una volta dopo un corso di inglese che frequentavo un ragazzo mi ha avvicinato e ha chiesto di poter conoscermi meglio e mi ha fatto anche un regalo. Mi sono vergognata e spaventata molto, qui un gesto così è visto molto male, non l’ho raccontato nemmeno alla mia famiglia, ma ho smesso di frequentare il corso, con molto dispiacere.
Inoltre ho dovuto rinunciare anche a qualche corso serale a cui mi ero iscritta perché la sera tornare a casa da sola era pericoloso e le famiglie di noi studentesse erano sempre molto preoccupate.
Erano tante insomma le differenze tra donna e uomo, tra ragazzi e ragazze, che abbiamo vissuto sulla nostra pelle:
sentivo che la donna era vista come un essere umano inferiore, rispetto ai maschi che comandavano, ordinavano e avevano uno spazio molto più grande riservato solo a loro
Mentre studiavo e pensavo al mio futuro, e al futuro delle donne nel mio paese, mi sono arrivate, come da tradizione, molte richieste di matrimonio, anzi arrivavano direttamente alla mia famiglia. Le ho sempre rifiutate e per fortuna nessuno mi ha imposto niente: volevo andare avanti con la mia vita, con le mie cose, le mie lezioni e i progetti che avevo in testa. Invece qui, un a volta che ti sei sposata una ragazza viene molto limitata nelle cose che fa, perché deve prendersi cura della famiglia, dei figli, della casa. Quindi è un impegno abbastanza grande e conoscendomi, non volevo prendere questo impegno in quel periodo, ma impegnarmi nei miei progetti e raggiungere i miei obiettivi. Poi sono arrivati i Talebani al potere.
Ieri come oggi
Mia mamma e mia nonna mi raccontavano spesso come era l’Afghanistan 20 anni fa, mi hanno raccontato della guerra civile e che hanno perso tanti loro cari, i loro familiari e che tantissimi sono scappati in altri Paesi, lasciando la loro terra a causa di una guerra che sembrava non finire. Noi abbiamo perso i miei zii materni e i miei cugini hanno avuto molti problemi in seguito. È stato un periodo che ha segnato molto la mia famiglia e che ha avuto conseguenze anche sulla mia generazione.
VEDI ANCHE CultureStorie dall’Afghanistan. La vita di Reha Nawin, attivista fuggita dai TalebaniAlla fine di questa guerra assurda e fratricida hanno preso il potere i Talebani con le loro leggi retrograde e oppressive contro tutta la popolazione afgana: divieto di ascoltare la musica, divieto per le donne di uscire senza burqa, e senza un uomo che le accompagnasse.
Mi raccontavano anche come i Talebani, ovunque si trovassero, se volevano sposarsi, non chiedevano il consenso della famiglia o della ragazza, ma si sposavano e basta, usavano la forza ed erano sempre armati, così la gente non poteva mai dire niente. Quando sentivo tutti questi racconti dicevo a mia mamma: “Per fortuna non ho vissuto in quell’epoca, quando veramente tutto era contro le donne, ma anche contro tutta la società e quando non c’era nessuno che ascoltasse questo popolo, che lo aiutasse”. Era una cosa che non immaginavo di poter affrontare e di dover vivere. Però nell’agosto del 2021, quando i Talebani hanno preso il potere, hanno scritto una pagina orribile nella vita di noi giovani. E tutti questi racconti sono diventati realtà anche per noi.
Mi ricordo bene il giorno esatto in cui i Talebani sono entrati a Kabul: proprio quel giorno stavo moderando un incontro all’Intercontinental Hotel in cui si parlava di loro, di quello che avevano fatto in passato come i matrimoni forzati, l’hijab obbligatorio e la giustizia sommaria
Mentre eravamo a questa riunione, una delle donne si è avvicinata e ci ha detto che i Talebani erano arrivati e avevano conquistato la città. Quando abbiamo avuto la notizia, tremavo, e tutte le donne presenti erano scioccate. Non potevamo credere che fossero arrivati a Kabul. La prima cosa che mi è passata per la mente sono stati i racconti di mia madre e di mia nonna, e che avrebbero distrutto tutti i nostri sogni, desideri e progetti.
È stato come se all’improvviso crollasse tutto. È stato il momento più brutto della mia vita. Abbiamo subito lasciato l’evento e quando siamo uscite dall’hotel, abbiamo visto che non c’era nessuna guardia di sicurezza e che tutti correvano. Era una situazione disperata
Nessuno sapeva dove andare. Tutti cercavamo di arrivare in un posto sicuro, di arrivare a casa. Mentre correvo ho visto delle macchine della polizia che andavano via, mentre arrivavano quelle dei Talebani, armati. Ero letteralmente sotto choc, perché mai mi sarei immaginata di vivere una situazione del genere e vedere così da vicino i Talebani, tutti armati. Non potevo credere che fossero per le strade di Kabul. Quando sono tornata a casa, la mia famiglia era sconvolta e preoccupata, sia per il fatto che l’evento era contro di loro, sia perché ero da sola fuori casa. Nessuno sapeva se mi avevano sparato o se mi avevano arrestato. Nessuno sapeva nulla.
Sono salva, sono viva ma sono terrorizzata dalla Storia che, in Afghanistan, si ripete. A differenza però della mia mamma e della mia nonna io cercherò di non tacere e anche se la mia voce, questa volta forte e chiara, adesso può vivere solo sui social, ho fiducia che andrà molto lontano
A cura di Rooya Saifurahman e Pamela Cioni. Un progetto editoriale di Mondadori in collaborazione con la campagna "Emergenza Afghanistan" di COSPE.