Carolina Benzi

Carolina Benzi, sex coach: “Chi ha paura della sessualità femminile?”

16-05-2023
Parlare di sessualità in relazione al mondo femminile è ancora uno dei tabù della nostra società. Il rischio per chi ne parla liberamente è quello di essere giudicata o incompresa, ma la libertà di esprimersi sul proprio corpo è alla base dell’autodeterminazione di una persona. Di questo, e dell’importanza di andare oltre gli stereotipi, abbiamo parlato con Carolina Benzi, sex coach, insegnante di yoga e imprenditrice

Occuparsi di formazione, aiutare le aziende a implementare politiche di sostenibilità sociale, oltre a offrire percorsi educativi a chi desidera vivere meglio la propria sessualità e diventarne più consapevole, sono solo alcuni degli aspetti del lavoro di Carolina Benzi.

Oggi si trova a Fuerteventura, dove ha fondato NALU, una scuola di yoga e surf che si fa promotrice di una cultura dello sport sana in contrapposizione al mito della performance.

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La tendenza a dare la priorità alla cura della propria immagine toglie tempo a tante altre attività a cui potremmo dedicarci e che potrebbero farci stare meglio con noi stesse, aumentando il nostro senso di soddisfazione e realizzazione personale.

A questo proposito, Naomi Woolf nel libro “Il mito della bellezza” spiega come il culto della bellezza diventa uno strumento per impedire alle donne di emanciparsi addirittura economicamente, perché leva talmente tanto tempo, da doverlo sottrarre al lavoro, allo studio o alla carriera.

È ancora difficile parlare con serenità, senza stereotipi, e in modo approfondito della sessualità delle donne. A questo proposito, a chi si rivolgono i percorsi di coaching che fai? E quando hai deciso di occupartene?

Ho studiato all'università studi culturali e di genere, successivamente mi sono specializzata in sessualità, proprio perché avevo capito che non si poteva parlare di genere senza parlare di sessualità. Genere e sesso sono due cose diverse, ma collegate tra di loro.

Come donne abbiamo ricevuto un'educazione castrante per quanto riguarda la sessualità e anche per quanto riguarda il nostro essere

La parola donna viene utilizzata come stereotipo, invece che come archetipo, un concetto molto più ampio e generoso. Alcune clienti durante le consulenze mi hanno raccontato di avere un rapporto complicato con la propria sessualità. Questo succede perché la sessualità femminile quando è libera è vista dalla nostra società come mostruosa o come qualcosa che non è adeguata, che non si addice a una ragazza o a una signora “per bene”. Questa donna “per bene”, come la ritrae la società, si rivela essere una donna che ha una vita sessuale quasi annientata e su di lei grava l’aspettativa sociale che la vuole madre a un certo punto della sua vita.

Un tipo di educazione così porta a un grande distacco dal proprio corpo e dal proprio piacere. Si finisce per avere paura di provare piacere, guidate dal senso di colpa

Spesso non c’è neanche una conoscenza adeguata dei propri genitali, non si è consapevoli di cosa ci fa provare piacere e per questo non possiamo spiegarlo a qualcun altro.

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In quanto educatrice sessuale come intervieni? E quali studi hai fatto?

Intervengo con un percorso di rieducazione sessuale. Se invece il problema è legato a un trauma più profondo ed è dovuto, per esempio a relazioni familiari complicate, dopo la prima consulenza consiglio una terapia con una psicoterapeuta specializzata in sessualità. Ho fatto il master in studi culturali e di genere alla Radboud University a Nijmegen, in Olanda. Si tratta di un mix tra scienze politiche, antropologia e sociologia. Ho avuto la fortuna di studiare con professoresse pioniere degli studi di genere, come Rosi Braidotti, che è stata la prima in Europa ad ottenere la prestigiosa cattedra di Women’s Studies nell’antica Università di Utrecht

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Quando, invece, hai deciso di fondare Espressy?

Espressy è una think tank multidisciplinare dedicata alla diversità e all’inclusione. L’ho fondata nel 2021 con i miei due soci che sono Francesco Ferreri, che è un antropologo, e Lorenzo Mattiello, che invece è un social media strategist. È iniziato tutto con il desiderio di creare una realtà che si occupasse di formazione e di educazione. Inoltre, uno dei miei sogni è quello di occuparmi di educazione nelle scuole, ma ci vuole tempo. La domanda di formazione dedicata alla diversità e all'inclusione è già una realtà, così abbiamo deciso di creare un servizio di formazione di alto livello.

Sei anche un’insegnante di yoga, come pensi che lo sport e il movimento del nostro corpo possano influire sulla nostra salute mentale e fisica?

Insieme al mio compagno e socio Daniele Moscardini abbiamo deciso di fondare la scuola di yoga e surf NALU a Fuerteventura. È un progetto ambizioso e rappresenta uno dei sogni della mia vita: cambiare la cultura del corpo e dello sport. Mi interessa perché io sono una sportiva da tutta la vita. Pratico yoga da più di dieci anni e ho frequentato e lavorato in tante palestre e studi in Italia, Olanda e Spagna. Purtroppo, ho constatato che questo ambiente è spesso costellato da una cultura distruttiva che abbiamo del corpo. Mi spiego meglio, lo sport a livello teorico viene comunicato come qualcosa che promuove la pace e l'inclusione, poi nel concreto non è sempre così.

negli studi di yoga dietro casa, come in piscina e in qualunque altro centro sportivo si verificano ogni giorno episodi di body shaming e regna il mito della performance

O dimostri di essere performante, oppure rischi di essere bullizzato o bullizzata. L'aspetto ludico dello sport, invece, è altrettanto importante. Il nostro sogno era quello di aprire un centro dove la mente e il corpo fossero concepiti come un qualcosa che va all'unisono. Un luogo in cui ci impegniamo a far sentire accolte e comprese le persone che hanno il sano desiderio di fare sport, senza subire pressioni inutili. Inoltre, usiamo lo spazio della scuola anche per fare divulgazione, attraverso dei workshop. Di recente ne ho tenuto uno sugli stereotipi di genere e sul body shaming con la comunità locale. L’obiettivo è quello creare una nuova cultura dello sport.

C'è tanto da decostruire e partire dalle giovani generazioni può rappresentare una soluzione. A questo proposito, sui social media ti esponi su temi come quello dei disturbi alimentari, riconosciuto come un problema in aumento da parte della Società Italiana di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza (Sinpia). Quali consigli ti senti di dare?

I disturbi alimentari sono un fenomeno complesso e sicuramente più diffuso nella popolazione femminile, ma non solo, e ci tengo a ribadirlo. Non mi sento di ridurlo a un discorso relativo solamente all’immagine, ovvero come io vedo il mio corpo e come lo vedono gli altri. Sicuramente però, per capire la sproporzione nell’incidenza femminile, dovremmo chiederci perché le donne vengono costantemente educate a volgere lo sguardo all’esterno alla ricerca di approvazione.

Il corpo delle donne è soggetto al male gaze, e questo non ha assolutamente nulla a che vedere con l'essere persone sane o meno, ma ha a che vedere con il possesso e il l’oggettificazione del corpo femminile.

Quando lo sguardo altrui, ma soprattutto quello maschile, non valida l’espressione estetica di una donna, il suo mondo crolla

Questo avviene perché fin da piccole la società insegna alle ragazze a ricercare quello sguardo che validerà il loro corpo. Ai maschi non viene insegnato lo stesso, e infatti gli uomini non sono abituati a farsi costantemente questo tipo di domande, anche se questo non vuole assolutamente dire che non esista uno stereotipo maschile.

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Da dove pensi sia importante ripartire per creare una cultura inclusiva nella società?

Tutto nasce dagli stereotipi di genere e da una cultura che vede la donna in una posizione subalterna rispetto all'uomo. Ma attenzione: in questa cultura, anche tutte le altre identità sono subalterne all'uomo e hanno poche possibilità di gestire il loro corpo.

Bisogna intervenire a scuola, cambiando i libri di testo e il modo in cui si parla della donna e dell’uomo, uscendo dallo schema secondo cui il papà è colui che lavora e la mamma è colei che stira. L’introduzione di un'educazione socio-emotiva e di genere nelle scuole, a partire dall'infanzia fino al liceo può portare a un grande cambiamento in positivo. Possiamo fare tutte le campagne di sensibilizzazione che vogliamo, pubblicare post, storie e tenere eventi, ma non sono altro che “soluzioni cerotto” di una ferita molto più grande.

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