Decolonizzare lo sguardo per capire il mondo: chi era bell hooks e perché rileggerla oggi

Si firmava con le iniziali minuscole con l’obiettivo di confinare il suo io in secondo piano e dirottare l’attenzione sulle sue idee: bell hooks, pseudonimo di Gloria Jean Watkins, è stata – e continua ad essere attraverso i suoi scritti – una femminista prolifica e rivoluzionaria. È con le sue riflessioni che l’approccio intersezionale entra nel dibattito identitario, anche al di fuori dell’accademia. Rileggere oggi il suo Elogio del margine offre una chiave di interpretazione inedita per comprendere l’attualità: ecco perché

Chi è bell hooks

Gloria Jean Watkins, questo era il nome di bell hooks, nasce nel 1952 nel Kentucky, in particolare nella cittadina Hopkinsville dove vigeva la segregazione razziale, mentre sua madre lavorava come domestica per una famiglia bianca.

«Non sarei qui a scrivere» disse la scrittrice a Maria Nadotti nel 1996, parlando di “Elogio del margine”, «se mia madre, Rosa Bell, figlia di Sarah Oldhan, nipote di Bell Hooks, non avesse creato un focolare domestico come luogo di resistenza e lotta per la libertà all’interno delle società suprematiste bianche, nonostante le contraddizioni della povertà e del sessismo».

hooks studia alla Stanford University, dedicando la sua tesi all’opera di Toni Morrison. A soli 24 anni scrive un libro decisivo che ha cambiato tutto, per lei come per gli studi di genere: Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism, pubblicato nel 1981. Il titolo riprende la stessa domanda che Sojourner Truth, attivista antischiavista, pose nel 1851 a un’assemblea di donne: «Non sono forse anch’io un essere umano?».

Con il suo primo saggio hooks invitava ad interessarsi una volta per tutte anche alla condizione delle donne perché, fino ad allora, se un afroamericano veniva socialmente considerato un intellettuale si trattava sempre di un uomo. Raccontando e testimoniando come le donne nere dal diciassettesimo secolo ad oggi siano state oppresse tanto dagli uomini (bianchi e non) quanto dalle donne bianche della classe media, hooks concepiva la lotta femminista come lotta trasversale e contemporanea contro razzismo e sessismo, riconoscendo i due fenomeni come intrecciati.

Razzismo e sessismo, quindi, sono considerati da hooks come problemi sistemici che solo un femminismo politico può combattere: «Non sono assolutamente interessata a un femminismo ridotto a stile di vita. Quel che mi interessa è una politica femminista, la definizione di programmi femministi per la nazione e lo stato, la trasformazione culturale» scrive hooks, che continua:

Credo sia importante tenere bene in mente che il femminismo è politica

«Per scegliere la politica femminista bisogna aver fatto un’esperienza di conversione mentale, perché tutti noi siamo stati condizionati a essere sessisti. Chi ha una visione ampia e articolata del capitalismo sa bene che il problema è il sessismo, non gli uomini».

Come hooks scardinò il femminismo della sua epoca

La riflessione di hooks lascia il segno e scardina il femminismo della sua epoca, centrato sui bisogni e sui problemi delle donne bianche di classe medio-alta che non consideravano adeguatamente nelle loro rivendicazioni i bisogni e le esistenze delle donne appartenenti alle minoranze etniche, rafforzando così gli stessi stereotipi che si proponevano di combattere. Lo stesso accadeva con gli afroamericani maschi: 

il nazionalismo nero di leader come Malcolm X o del leader delle Black Panthers Stokely Carmichael cercava di combattere gli stereotipi razziali rafforzando invece quelli sessisti

Ne è un esempio l’opposizione dei leader afroamericani alla concessione del voto alle donne subito dopo la guerra civile. La scrittura di hooks racconta questa subalternità e lo fa in modo rivoluzionario, parlando a tutte le persone.

Il libro "Ain't I a Woman: Black Women and Feminism", infatti, non usava una formattazione accademica. Niente note, né bibliografia: l’obiettivo di hooks era raggiungere un pubblico molto più ampio di quello che normalmente avrebbe letto un testo simile.

hooks, nel tempo, ha saputo parlare a tutte le persone suggerendo riflessioni intorno a fatti di estrema attualità riguardanti anche la cultura pop. Un esempio è la sua critica a Beyoncé: nel 2014, partecipando a una tavola rotonda sulla rappresentazione del corpo nero, hooks aveva discusso la copertina della popstar per TIME con Janet Mock, autrice transgender conosciuta come sceneggiatrice, regista e produttrice della serie tv Pose, affermando: «Stai dicendo, dal mio punto di vista decostruttivo, che lei sta partecipando alla costruzione di se stessa come schiava. (…). Vedo una parte di Beyoncé che è anti-femminista, aggressiva e terrorista, soprattutto per l’impatto che ha sulle ragazzine».

hooks non stava chiedendo a Beyoncé di rinunciare ad essere considerata femminile, ma voleva sottolineare come l’artista stesse facendo esattamente quello che l’industria musicale chiede ogni giorno alle donne

hooks non faceva sconti: le tematiche affrontate nei suoi libri la rendevano l’interlocutrice ideale per leggere in chiave inedita temi attuali, esattamente come accaduto con l’idea di mascolinità che hooks analizzò in seguito alle indagini legate al #MeToo, ossia lo scandalo relativo alle molestie nel mondo del lavoro esploso nel 2017 con le accuse fatte da molte donne al produttore hollywoodiano Harvey Weinstein. hooks ne aveva parlato con il conduttore di un programma radio del New Yorker, David Remnick, affermando: 

«Mio padre, che era un uomo molto violento, molto patriarcale, era nella fanteria durante la Seconda guerra mondiale. Era un pugile. Era un giocatore di basket. Era tutte queste cose che noi associamo alla mascolinità, e in realtà disprezzava molto mio fratello, perché in realtà mio fratello era un essere umano molto più morbido e caldo. E mio padre lo guardava dall’alto in basso. Sentiva che non era virile».

Indagare le sfumature, i motivi dietro le cose, le radici più profonde: hooks sapeva leggere il presente, guardando al futuro.

Decolonizzare lo sguardo

Avere uno sguardo trasversale, dando valore all’esperienza autobiografica che non si può appiattire in mere generalizzazioni. Se oggi si parla sempre di più della necessità di  decolonizzare  l’immaginario lo si deve a studiose come hooks.

In Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, pubblicato da Feltrinelli nel 1998, hooks propone di non vedere la cultura che viene considerata "alta" in modo dicotomico rispetto a quella che viene considerata "bassa", ma chiede di interessarsi ad entrambe, di abbandonare la dicotomia centro/margine. Come riporta la scrittrice:

«Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Per noi, americani neri, abitanti di una piccola città del Kentucky, i binari della ferrovia sono stati il segno tangibile e quotidiano della nostra marginalità. Al di là di quei binari c’erano strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo mangiare e persone che non potevamo guardare dritto in faccia. Al di là di quei binari c’era un mondo in cui potevamo lavorare come domestiche, custodi, prostitute, fintanto che eravamo in grado di servire. Ci era concesso di accedere a quel mondo, ma non di viverci. Ogni sera dovevamo fare ritorno al margine, attraversare la ferrovia per raggiungere baracche e case abbandonate al limite estremo della città. C’erano leggi a governare i nostri movimenti sul territorio. Non tornare significava correre il rischio di essere puniti. Vivendo in questo modo – all’estremità –, abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo». Il margine diventa luogo di esistenza e resistenza che sposta il centro: chi definisce il centro? si chiede hooks.

Proprio perché ha imparato a vedere ciò che altri e altre non vedono, hooks elabora una teoria dello sguardo: la specifica posizione dalla quale le donne nere osservano la realtà sociale permette loro di diventare delle spettatrici critiche

Ne è testimonianza un’esperienza quotidiana come andare al cinema: per le donne nere, dice hooks, «l’incontro con lo schermo è una ferita». Tuttavia, l’impossibilità di identificarsi con le rappresentazioni dominanti, apre l’opportunità di sviluppare uno sguardo oppositivo, una possibilità.

Così il concetto di margine diventa “un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza”: una teoria dirompente che spezza il nesso retorico tra marginalità e vittimizzazione, tra oppressione e rassegnazione

Una lente di lettura valida soprattutto oggi: imparare a interpretare la contemporaneità, andando al di là di riduttive semplificazioni, serve a non polarizzare il dibattito e imparare a guardare oltre il nostro “centro”.

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