Disturbi del comportamento alimentare: Aurora Caporossi e la battaglia per “dare voce a chi si sente invisibile”
Quando aveva appena 16 anni ha combattuto un nemico che per la maggior parte delle persone è ancora invisibile, quasi immateriale, ma che per lei e la sua famiglia non era soltanto molto concreto, ma estremamente debilitante sotto ogni punto di vista. Oggi che di anni ne ha 24, Aurora Caporossi è la presidente di una no-profit, Animenta, nata per raccontare, informare e sensibilizzare su tutti i disturbi del comportamento alimentare. Compresa l’anoressia, la malattia contro cui ha lottato per anni.
Inserita nella lista degli Under 30italiani più influenti da Forbes Italia, Caporossi è originaria di Roma e ha studiato alla Sapienza. Lei si presenta così:
Sono Aurora e sono una millennial. Romana doc, amo la scrittura e l'innovazione. Ho sofferto di un disturbo alimentare, si chiama anoressia nervosa. So che significa quando parli e nessuno ti ascolta, per questo scrivo e per questo ho fondato Animenta
Parole semplici che esprimono concetti profondi, perché d’altronde, come lei stessa spiega, «le parole hanno sempre un impatto, costruiscono la realtà in cui viviamo, come dice Paolo Borzacchiello. E bisogna sceglierle e usarle con cura». Lo stesso principio Caporossi lo ha messo alla base della comunicazione di Animenta, che usa i social per rivolgersi soprattutto ai giovani e che evita con cura, nel postare contenuti, di usare immagini di corpi, cibo o calorie. Un modo per far capire a chi sta là fuori e combatte con i disturbi del comportamento alimentare che non è solo, e soprattutto che è compreso, visto e supportato.
Le abbiamo chiesto di raccontarci il suo progetto.
Aurora, il dibattito sui disturbi alimentari negli ultimi tempi sembra essere cambiato. Complici forse nuovi canali di comunicazione e una rinnovata sensibilità, sembra se ne parli di più...
Lavorando quotidianamente con le scuole abbiamo sicuramente avuto modo di notare che il dibattito pubblico è cambiato, e che se ne parla di più. Io però, come tutte le persone che si occupano di queste malattie, lavorerei molto sul come se ne parla, sulla qualità dell’informazione.
Un disturbo alimentare, come qualsiasi altro disturbo, c’è sempre, non solo il 15 marzo (la Giornata nazionale contro i disturbi del comportamento alimentare, ndr)
In Animenta abbiamo una policy molto chiara su come denominarli, e come raccontare la storia di chi soffre di anoressia o bulimia. Non usiamo i termini “anoressico”, “bulimico” o “obeso” (anche se è importante sottolineare che l’obesità non è un disturbo alimentare) perché siamo consapevoli che il grosso rischio è che la persona che ne soffre si identifichi con la malattia. Dire “io sono un’ex anoressica” è un po’ come perdere parte della propria identità. Va cambiato anche il linguaggio, dobbiamo andare oltre la malattia, raccontare che si può guarire, narrare le storie di chi affronta la malattia ma anche di chi l’ha sconfitta. È fondamentale per far capire che se ne può uscire, e che non si è la malattia, ma se ne soffre.
Voi avete scelto di affrontare il tema attraverso il racconto di storie, appunto. Che cosa avete compreso, a livello generale, da quando è partita l’attività di Animenta?
Innanzitutto abbiamo capito che le risorse per affrontare queste malattie sono ancora troppo poche e certamente non a disposizione di tutti.. Per dare voce a chi si sente invisibile bisogna farlo quotidianamente, lavorare sul campo, parlare con le persone e con i centri e offrire alle persone cure adeguate. Le liste d’attesa per le cure sono enormi, e questo ti fa sentire ancora più solo.
Noi raccontiamo tante storie perché vogliamo far capire la molteplicità delle situazioni, delle persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare e dei loro percorsi
Queste malattie sono molto complesse, c’è chi guarisce in due anni, chi in uno, chi in otto. Siamo tutti “work in progress”, e l’accesso a cure adeguate, tempestive e costanti è fondamentale.
Che cosa manca secondo te oggi per affrontare in modo adeguato queste patologie?
Manca prima di tutto la formazione di qualità. È indispensabile formare equipe multidisciplinari composte da psichiatra, psicologo, nutrizionista e dietista che affrontano la malattia a 360 gradi.
Servirebbe poi un ambulatorio specializzato in ogni regione e in ogni territorio, per fare in modo che ovunque tu nasca e abiti abbia un punto di riferimento e la possibilità di accedere alle cure
Serve un servizio pubblico adeguato: non tutte le persone oggi hanno la possibilità di seguire una cura. E poi bisogna lavorare sulla prevenzione: prima si interviene, prima si può cominciare il percorso di guarigione. Inoltre bisogna far capire alle persone che c’è possibilità di guarire, che se ne esce.
In questo senso, è vero che ci sono molti preconcetti relativi alla cura di queste malattie. Molte persone come prima cosa pensano di dover contattare un nutrizionista, in caso di disturbi del comportamento alimentare.
È vero. La prima persona che chiamano solitamente è il nutrizionista o il dietista. Siccome si pensa a un disturbo connesso al cibo, si chiama un professionista esperto di nutrizione. E lo capisco, non è neppure sbagliato, ma il passaggio ideale è un’equipe multidisciplinare in grado di affrontare la situazione dal punto di vista biologico e della psiche. Come ha detto bene anche Michela Marzano nel suo libro “Volevo essere una farfalla”, uno dei miei preferiti, l’anoressia è un sintomo. Ciò che si vede, una persona che restringe moltissimo il cibo, racconta in realtà di traumi, disagi, dolori che ci si porta dietro da tanto tempo.
E al dolore bisogna dare una dignità: va riconosciuto e capito. Non bisogna toccare il fondo per chiedere aiuto
La tua è una consapevolezza che colpisce, soprattutto per alla luce della giovane età. Quanto della tua esperienza hai portato in Animenta?
Moltissima. Mi sono ammalata a 16 anni, ora ne ho 24, prima ho provato a curarmi tramite il sistema pubblico, poi ci siamo trovati costretti a rivolgerci al privato, ed è questo uno degli aspetti fondamentali del problema. Non siamo preparati, i centri residenziali o semi residenziali, le comunità e gli ambulatori sono pochi, nelle regioni del Sud spesso mancano i centri, mancano le strutture e ugualmente mancano i professionisti.
Oggi si parla molto dell’impatto che i social hanno soprattutto sui più giovani, e sugli standard irreali che vengono proposti anche attraverso i filtri. Animenta usa molto i social per comunicare: immagino che dietro vi sia una visione precisa.
I social sono uno strumento, siamo noi a popolarlo, chi mette i contenuti, ed è normale che le piattaforme rispondano per aiutarci.
Con Animenta abbiamo deciso di usare i social come megafono, molti ragazzi scrivono che si sentono accolti nella nostra pagina perché non ci sono foto di corpi o cibo
Sono consapevole che è difficile comunicare scrivendo, a livello di algoritmo si indicizzano molto più facilmente determinate foto, quindi invito le persone che si prendono questa responsabilità sociale verso l’altro a fare molta attenzione. Se si mette un’immagine si genera sempre un’emozione, la comunicazione è un gioco di immagini. È necessario quindi ragionare sul contenuto, chiederci cosa può suscitare nell’altro, ed è importante lavorare nel raccontare qualcosa di costruttivo all’altro, accompagnarlo nel percorso di guarigione. Ci vuole responsabilità e cura. Non è solo una questione dell’immagine condivisa, ma di quello che io provo guardando quell’immagine. Ed è importante anche creare una linea di congiunzione tra la vita online e quella offline.
Il tema dei Disturbi del Comportamento Alimentare è recentemente entrato anche nel dibattito politico. C'è il rischio è che si strumentalizzi?
Le parole hanno sempre un impatto, che arrivino dalla classe politica, dal sociale, ma anche da amici o parenti.
Queste malattie non sono ancora comprese, molti non sanno come parlarne, come fanno le persone che ne soffrono a non sentirsi invisibili? Identificare la malattia ti aiuta, ti dà le coordinate: se sai cos’è inizi anche a pensare a cosa fare
È importante, per le persone che ricevono le diagnosi, capire che non sono la diagnosi, ma la storia. I numeri delle persone che soffrono di Disturbi del Comportamento Alimentare sono in crescita, soprattutto dopo il Covid, e non vedersi e non vederli riconosciuti genera un po’ di rabbia e tanta sofferenza in chi questa malattia la sta vivendo. Questa è una necessaria presa di coscienza: noi siamo aperti al dialogo e al confronto con tutti, possiamo costruirci insieme.