15 storie esemplari di donne che hanno resistito al Covid: Intervista a Eleonora Mattia
Su una cosa Eleonora Mattia non ha dubbi: a pagare le conseguenze maggiore della pandemia da Covid sono state soprattutto le donne. E a loro Eleonora Mattia ha dedicato il libro I giorni del coraggio – La forza delle donne oltre la pandemia, edito da Officine d’Arte Out Out. Si tratta di una raccolta di quindici storie di donne che, ricche di talento e normali al tempo stesso, forniscono una testimonianza collettiva dei mesi della pandemia da una prospettiva di genere.
Secondo Eleonora Mattia le donne sono state quelle che hanno dovuto maggiormente affrontare un cambiamento che, a distanza di due anni, possiamo definire epico. Hanno dovuto affrontare il mondo del lavoro e i suoi cambiamenti, hanno fatto fronte a nuove emergenze non solo sanitarie e hanno rischiato in prima persona.
Quello che Eleonora Mattia affronta nel suo libro è un viaggio che va dal mondo della scuola alla fecondazione assistita, dal contrasto ai disturbi alimentari alla violenza di genere
I temi sociali si intrecciano inevitabilmente con quelli politici ed etici. E non potrebbe essere diversamente dato che Eleonora Mattia è Presidente del IX Commissione lavoro, formazione, politiche giovani, pari opportunità, istruzione, diritto allo studio, del Consiglio regionale del Lazio. In quest’intervista esclusiva solo per The Wom, il suo libro diventa lo spunto per una discussione più allargata sulle disparità di genere in Italia, sulla cultura dello stupro, sull’inclusività e, persino sul caso Bianchi, gli assassini del giovane Willy Monteiro.
Com’è nato I giorni del coraggio, un libro dedicato a tutte quelle donne che hanno mostrato la loro forza durante la fase più acuta della pandemia?
Tutti eravamo impreparati alla pandemia da Covid. I giorni del coraggio nasce per sottolineare come le donne siano state quelle che abbiano pagato di più le conseguenze di ciò che stava avvenendo. Lo dicono i dati che analizzano il carico di lavoro che hanno dovuto subirsi, dallo smartworking alla dad: le donne sono state messe all’angolo. Ma anche dalla narrazione, soprattutto in un primo momento: tutti coloro che vedevamo ad esempio in televisione erano uomini, dai virologi agli economisti. Per la funzione che svolgo, io mi ritrovavo invece ogni giorno a contatto con le donne.
Mentre mi abituavo a parole nuove come lockdown e isolamento, entravo in relazione con tantissime donne che, ognuna nel proprio ambito, stavano cercando di superare la pandemia: nonostante le grandi difficoltà, ogni donna trovava delle soluzioni adeguate ad affrontare gli imprevisti. A volte anche più grandi di loro, come testimonia la storia di Silvana Sergi, la direttrice della Casa Circondariale Regina Coeli di Roma.
O come ad esempio Martina Spigarelli, la pedagogista di Il Girasole, l’asilo nido romano in cui si usa regolarmente sia l’italiano sia la LIS, la lingua dei segni.
Quello di Martina è un esempio fantastico perché ha dovuto trovare una soluzione alternativa per stare vicina ai genitori e ai bambini. Tra l’altro, quella del Girasole è una realtà unica in tutta Italia.
Come ha scelto le 15 storie da raccontare? Sono tutti esempi di donne che hanno dovuto reinventarsi e reinventare la loro professione in un momento in cui era praticamente impossibile portarla avanti.
Ogni storia è diversa dall’altra perché ho cercato di diversificare i vari ambiti in cui le donne operavano. Avevo in quel periodo un contatto quasi quotidiano con ognuna di loro, nel mio piccolo cercavo di risolvere i problemi che potevo.
Ho scelto le 15 storie che mi hanno colpito maggiormente, per un motivo o per un altro
Come quella di Martina Spigarelli, di Silvana Sergi o di Arianna Pacchiarotti, la responsabile del Centro PMA del San Filippo Neri di Roma, che è stata vicina a tutte quelle donne che speravano di avere un bambino e hanno dovuto interrompere il percorso medico che avevano iniziato. Nel Lazio esiste il limite dei 43 anni per l’accesso alle terapie di procreazione medica assistita e per molte donne la pandemia ha posto fine ai loro sogni. Arianna sta combattendo tuttora per portare tale limite ai 46 anni.
Quanto è stato difficile per lei in quei momenti separare il lavoro dalla vita privata?
Non è possibile farlo. Non si tratta di chiudere la porta dell’ufficio e lasciarsi tutto alle spalle. La vita privata per noi donne rientra nel lavoro e il lavoro rientra in quella privata.
Rappresenta questa quasi una peculiarità di genere. A cosa pensa sia dovuta? C’è maggiore solidarietà nei sentimenti?
Più che di solidarietà parlerei di centralità, anche nel trovare soluzioni a situazioni difficili.
I giorni del coraggio si apre con una citazione del film Dirty Dancing, Nessuno mette Baby in un angolo.
Ho sempre preferito Dirty Dancing a Pretty Woman. O, meglio, ho sempre preferito la protagonista di Dirty Dancing a quella di Pretty Woman in attesa del principe azzurro. C’è una notevole differenza negli atteggiamenti delle due: in Pretty Woman lei ha un atteggiamento quasi passivo mentre in Dirty Dancing, Baby prende la situazione nelle sue mani, la affrontava. Baby sceglie quello che deve fare e tutte le protagoniste del libro sono in qualche modo Baby.
I giorni del coraggio è dedicato a sua madre. Nel pensarci, lei non ha però scelto di raccontare la sua storia personale.
Non è proprio così. Attraverso la narrazione viene fuori anche la mia storia e le cose che ho fatto negli ultimi cinque anni. Sono stati anni che ho dedicato proprio alle donne, ai diritti delle bambine e dei bambini e alle tutele dei nuovi lavoratoti. Ho proposto atti importanti o fatto approvare leggi fondamentali come la legge 0/6 sul sistema integrato di educazione e istruzione.
Ho combattuto e continuo a farlo affinché tutto il welfare rimetta al centro un concetto semplice: la maternità non è una questione di responsabilità personale ma di responsabilità sociale
Le istituzioni devono fare in modo di creare le infrastrutture che permettano alle donne di andare a lavorare. Una donna non deve più scegliere tra il lavoro e l’essere mamma.
Sono stata la prima firmataria della legge regionale sulla parità salariale: il Lazio è stata la prima regione in Italia ad averla approvata. Sono seguite poi tutte le altre e si è estata a livello nazionale.
E tantissime altre iniziative ancora, la lista è davvero notevole e lunga. Ma quanto è difficile far approvare oggi leggi o provvedimenti del genere in un Paese come il nostro che tende ancora oggi ad avere una cultura fondamentalmente patriarcale?
Diciamo che non è facile ottenere il voto unanime da parte di tutte le forze politiche. Bisogna, quindi, fare una battaglia culturale che parta proprio dalle istituzioni: nessuno, anche in questo caso, può mettere le donne in un angolo.
È importante in questa battaglia il sostegno dell’opinione pubblica, dai mass media alla gente comune?
Tanto. Come dicevo, è tutto legato all’aspetto culturale.
Dobbiamo tutti insieme cercare di cambiare la cultura di questo Paese. Il mio raccontare la storia di quindici donne vuole nel suo piccolo essere un manifesto anche per le giovani generazioni, che devono prendere come riferimento esempi di donne forti
Tutto ciò che in termini di diritti noi donne ci siamo guadagnate non deve essere mai dato per scontato. Considerate quello che è accaduto con il diritto all’aborto negli Stati Uniti.
Tra le varie iniziative di cui mi occupo c’è il premio regionale intitolato a Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, che ho portato nelle scuole. Colasanti e Lopez sono le vittime del delitto del Circeo, uno dei crimini più orribili dell’uomo contro la donna, del più forte contro il più debole, del più ricco contro il più povero, mai commessi in Italia. Ma se oggi lo stupro non è più considerato un delitto contro la morale ma un delitto contro la persona lo dobbiamo alle donne che sono scese in piazza.
Per sopravvivere, Donatella si finse morta e con l’aiuto soprattutto dell’avvocato Tina Lagostena Bassi ha fatto conoscere la sua storia a tutto il Paese: le donne hanno allora preso consapevolezza di quanto stava accadendo e sono scese a manifestare, vincendo la battaglia.
Ha appena citato lo stupro. Perché la cultura dello stupro è così avallata in Italia? Di recente, ha suscitato scalpore il caso di un regista statunitense accusato di stupro da una ragazza mentre si trovava in Italia. Fermo restando che sarà un tribunale a decidere chi è innocente e chi è colpevole, perché un importante quotidiano sente l’esigenza di dare voce solo al presunto stupratore e non alla presunta vittima?
VEDI ANCHE CultureMartina, che ha sfilato con gli abiti di quando hanno tentato di stuprarla: «Non esiste abbigliamento che incoraggia le molestie»Dal delitto del Circeo in poi c’è un filo sottile che unisce tutte queste vicende: si colpevolizza sempre e solo la donna. Spesso si tira in ballo il modo in cui era vestita ma, come ha dimostrato la giovane Martina qualche giorno fa sfilando con gli abiti che indossava nel momento della violenza, non si può usare quella come giustificazione. Anche nel caso citato da te è la stessa cosa: si è deciso che la colpa sia della donna.
E, a proposito di violenza sulle donne, il suo libro I giorni del coraggio contiene anche la testimonianza di Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente e socia fondatrice del Telefono Rosa. Se da un lato ha avvicinato le persone, dall’altro lato il Covid ha anche favorito l’aumento della violenza domestica.
Il Telefono Rosa è stato un supporto fondamentale durante la pandemia, soprattutto per chi viveva l’inferno all’interno della propria abitazione. Quello che colpisce di Gabriella è che, nonostante un gravissimo lutto familiare, ha continuato a occuparsi di tutte le donne che subiscono violenza. Viviamo in un Paese in cui quasi tutti i giorni c’è un caso di femminicidio: come dicevo, deve cambiare la cultura. Ma deve cambiare anche all’interno delle aule giudiziarie e delle stanze delle autorità: bisogna capire cosa succede dal momento in cui le donne denunciano fino a quando vengono ammazzate.
Fa un certo effetto il fatto che le denunce vengano spesso sottovalutate o inascoltate. Mi stupisce anche il modo con cui i media raccontano il femminicidio, spostando l’attenzione dalla vittima al carnefice, spesso descritto come un “brav’uomo che salutava sempre” o liquidato con “nessuno se lo sarebbe aspettato”.
Occorrerebbe rivedere anche la narrazione dei fatti e le parole che vengono usate. Ma noi donne in Italia veniamo discriminate già dalla nascita.
Basta prendere in mano la carta di identità per accorgersene “Nato a” e non “Nata a”: quando nasciamo ci registrano già al maschile e con il cognome del padre. Sul cognome qualche piccolo passo in avanti fortunatamente è stato fatto
L’inclusività, e non poteva essere diversamente, è uno degli aspetti che in I giorni del coraggio viene affrontata facendo il punto su come abbiano vissuto la pandemia persone che convivono con varie forme di diversità, fisiche o psicologiche. Si racconta di autismo, di sordità come abbiamo già detto e di disturbi alimentari. E se ne parla focalizzando l’attenzione soprattutto sui giovani. Perché c’è da parte delle istituzioni una certa resistenza a farsi carico di certe problematiche?
Partiamo dall’autismo. Nel Lazio proviamo ad affrontare la questione tant’è vero che nel mio libro si racconta la storia di Stefania Stellino, madre di due ragazzi autistici e presidente dell’Associazione nazionale genitori di persone con autismo. Stefania stessa ci parla della pandemia come uno dei periodi più brutti che abbia mai vissuto. Ricordiamo che i ragazzi affetti da autismo hanno bisogno di essere molto seguiti, di uscire di casa, di fare sport: tutte attività che il Covid impediva. Lei si è dovuta ad esempio rasare i capelli a zero per evitare che il figlio glieli staccasse.
La regione Lazio si è subito adoperata permettendo ai ragazzi di uscire di casa, un esempio che hanno seguito poi anche le altre regioni. Ricordiamo che l’autismo è una di quelle condizioni che è “emersa” relativamente da poco tempo ma che oggi, grazie al coraggio di tante mamme e tanti genitori, si conosce meglio. Già mi ero avvicinata ai problemi dell’autismo durante la mia esperienza da vicesindaco a Valmontone. Avevo allora deciso di pagare io le cure ai bambini che ne erano affetti e la preparazione di chi doveva star loro vicino.
I disturbi alimentari, invece, durante la pandemia sono aumentati del 30%. Si diceva come la pandemia abbia colpito, soprattutto, le donne ma non sono state meno leggere le conseguenze sulle giovani generazioni
I ragazzi e le ragazze sono stati privati dei loro spazi e della socialità. Si dovrebbe rimettere al centro del dibattito politico amministrativo sia la questione femminile sia quella giovanile.
Le 15 storie raccontate in I giorni del coraggio possono essere definite di resistenza. Alla luce di come si sta evolvendo in questi giorni la situazione pandemica, occorre ancora resistere?
Si, non bisogna abbassare la guardia. Fino a due anni fa, quando arrivava la primavera e poi l’estate, eravamo tutti contenti: quasi non c’era traccia della diffusione del Covid. Adesso, la situazione è cambiata. Il virus continua a sorprenderci, è diventato resistente anche al caldo e al sole.
Dovremmo continuare a considerare eroi quelli che siamo ritornati a considerare “lavativi”: parlo del personale sanitario, che deve continuamente adeguarsi al virus. Fino a qualche mese fa si chiudevano i reparti Covid e si diminuivano i posti in terapia intensiva, riprendendo quella che era l’attività ordinaria di un ospedale. Adesso si è ripreso a fare il contrario e il personale deve nuovamente trovare un equilibrio. Non è facile.
Ognuno di noi deve imparare a convivere con il virus e a capire quali sono le proprie misure di resistenza. Quindi, anche se si sta all’aria aperta e in mezzo a tante persone, è necessario mettere le mascherine. Così come è necessario continuare a sanificare le mani e a perpetuare quei comportamenti che abbiamo quasi dimenticato.
Lei è anche la fondatrice del premio Willy Monteiro Duarte. Pochi giorni fa è arrivata la sentenza di condanna nei confronti dei fratelli Bianchi, responsabili dell’omicidio insensato di Willy. Come l’ha accolta?
L’ho accolta con favore. Nessuno ci riporterà Willy indietro né il suo sorriso. Però è stata fatta giustizia. Nessuno di noi chiedeva vendetta ma solo giustizia. Willy era un eroe buono: lo hanno ucciso solo perché ha difeso un amico.