Erica Petrillo: “la crisi abitativa ci impone di sviluppare nuovi modelli di coabitazione”
Ci sono svariati modi per parlare di coesistenza e di interconnessione. Uno è certamente quello di scoperchiare il concetto di abitazione, di sviscerare i profondi significati che racchiude e di metterne in luce le rigidità nella società occidentale, i confini dettati da dogmi infrangibili (la proprietà privata), ma anche gli spazi di opportunità. Spazi che consentono di ripensare il senso profondo del mutualismo, della cura reciproca e della solidarietà per far germogliare nuovi modelli di coabitazione.
Innescata dalla protesta studentesca “delle tende” in Piazza Leonardo, a Milano, la rassegna CASE si interroga sull’emergenza abitativa affrontandola in modo trasversale attraverso le prospettive di sociologhe, architette, collettivi e pratiche sperimentali, per esplorare un malessere abitativo che non riguarda soltanto il contesto milanese o italiano, ma che anzi, interessa in forme diverse svariati contesti a livello globale.
A inaugurare il programma di CASE, che si innesta all'interno di We Will Design 2024, piattaforma-laboratorio che durante la prossima Design Week presenterà progetti di design da tutto il mondo, è stata la lecture della ricercatrice e attivista turca Pelin Tan. Mercoledì 31 gennaio ha presentato i suoi studi dedicati alle infrastrutture di coabitazione temporanea – come campi rifugiati o campi dedicati a comunità colpite da sismi - facendo emergere le pratiche virtuose nella gestione dei commons. Spunti di riflessione da diffondere in città come nei contesti rurali.
Mercoledì 28 febbraio sarà invece il turno di Rosario Talevi, architetta, curatrice ed educatrice argentina, oltre che membro del centro di pedagogie ed ecologie alternative Floating di Berlino, che dialogherà con Berta Gutierres e Alkistis Thomidou del collettivo forty five degrees. Viaggiando lungo il 45º parallelo Nord in Europa, il collettivo è impegnato a individuare casi-studio che testimoniano l’esistenza di comunità alternative.
Infine, venerdì 15 marzo, BASE accoglierà un workshop di costruzione guidato dall’architetta e ricercatrice Francesca Gotti, esperta in pratiche di autoproduzione spaziale e gestione condivisa.
Abbiamo chiesto alla curatrice di CASE, Erica Petrillo, di raccontarci qual è l’intento che muove la rassegna e come secondo lei è possibile dare nuovo slancio al tema della coabitazione per sviluppare modalità di esistenza alternative.
Con una formazione in scienze sociali e filosofia politica, ti occupi di creare una connessione tra l’attivismo politico-sociale e le discipline come arte, architettura e il design. Da dove nasce questo sguardo?
Dopo il percorso di studi in Filosofia Politica e Scienze Sociali a Cambridge, ho lavorato in alcune ONG, accorgendomi ben presto di non sentirmi rappresentata da un’idea binaria di attivismo dove c’è un buono e un cattivo, un giusto e uno sbagliato. Mi mancava un approccio più dialogico e sfumato, che alla contrapposizione tra bianco/nero preferisse un ventaglio di grigi e di tonalità intermedie. Parallelamente a queste esperienze ho sempre coltivato un interesse per le discipline artistiche, per l'architettura e il design. Così ho conseguito un Master alla Maastricht University in Arts, Politics and Society, in cui le scienze sociali venivano lette attraverso la lente delle discipline artistiche. Successivamente ho inviato una candidatura per una fellowship al MoMa di New York e ho avuto la fortuna di lavorare un anno e mezzo con Paola Antonelli, Senior Curator del dipartimento di Architettura e Design del MoMa, un esempio per me di vita, di professionalità, di donna. Paola è anche direttrice del dipartimento R&D che cura un public program molto versatile e flessibile, con un appuntamento al mese dove vengono dibattuti temi attuali e urgenti.
Si può fare attivismo sociale attraverso il design e l'architettura?
Sì, e il ruolo delle istituzioni culturali è fondamentale. Proprio lavorando al MoMa di New York ho assorbito l’idea di un museo non come scatola bianca, ma come spazio in cui portare avanti le conversazioni veramente rilevanti per la società. Da qui è nato l’approccio che ho portato anche in CASE. Il design e l’architettura non sono un fine, ma un mezzo per affrontare le grandi questioni dei nostri tempi.
Com’è nato CASE?
Sono stata invitata da Linda di Pietro e Giulia Cugnasca, rispettivamente Direttrice del Programma e Chief Operating Officer di BASE, a collaborare con BASE per una “curatorial residency”, che prima si è espressa in una consulenza e poi si è concretizzata nella formula del public program. Per me quello del public program rappresenta una formula molto spontanea ed effimera, dal basso impatto ambientale ma dal grande impatto sulla memoria di chi partecipa. Ogni anno BASE definisce un tema da approfondire, e, quando abbiamo iniziato a riflettere su quello di quest’anno, a Milano fervevano le proteste degli studenti contro il caro affitti. La nostra riflessione iniziale è scaturita da questo, per poi ampliarsi ad altre crisi abitative. Non volevamo parlare solo di Milano, l’idea era quella di indagare cosa volesse dire ripensare l’abitazione a 360 gradi. Un po’ sulla falsa riga di quello che è stato fatto alla Biennale Architettura 2021 con la mostra How will we live together?, ci siamo chieste come dare impulso a una società più giusta partendo dall’abitazione.
Come si sviluppa la rassegna?
CASE si sviluppa in tre episodi a cadenza mensile. L’idea di distanziare gli appuntamenti non è casuale: volevo creare spazio, evitando volutamente l’occasione della Design Week in modo da poter intessere un dialogo vero con il pubblico. Per farlo serve tempo, serve la libertà di avere spazio. L’intento ovviamente non è quello di esaurire il tema dell'abitazione in tre serate, ma di proporre punti di vista laterali e prospettive fresche. Ogni serata è poi accompagnata da una pubblicazione, una zine, che raccoglie altri contributi che sviluppano ulteriormente l'argomento della serata.
Il tema dell'abitare sembra attraversare una profonda trasformazione grazie a realtà e comunità alternative che propongono nuovi modi di coesistere e di collaborare: quali sono secondo te le pratiche che possono essere adottate e diffuse anche in contesti urbani?
Si tende spesso a distinguere tra contesti urbani e rurali, ma penso che questa distinzione, nel caso dei nuovi modelli abitativi, sia più sfumata di quanto si pensi. L’obiettivo con CASE è proprio quello di portare sul tavolo esempi e case study di realtà che mettono in atto delle alternative di coabitazione, ovunque si trovino, dimostrando che non si tratta di utopie, anzi. Si tratta molto spesso di pratiche di solidarietà e condivisione che possono essere prese a modello in qualsiasi contesto: da quelle messe in atto nei campi rifugiati in Turchia fino alle strategie pedagogiche alternative proposte dalla Floating University di Berlino, passando per le comunità alternative esplorate dal collettivo forty five degrees.