Federippi, autrice del libro "Femminucce" - Foto

Federica Fabrizio, attivista e scrittrice: “Femminucce” non è sinonimo di debolezza

06-04-2023
Perché a un bambino che fa i capricci viene fatto notare che deve smettere di fare la femminuccia? Che significato più profondo nasconde questa espressione? A una bambina è più facile venga detto che se continua a comportarsi male nessuno la vorrà più. Questi bias sono la conseguenza di norme sociali predefinite che accettiamo e influenzano la nostra crescita ed evoluzione come persone. Ce lo spiega Federica Fabrizio nel suo libro Femminucce

"Femminuccia è l’appellativo che viene rivolto soprattutto ai bambini maschi quando piangono o fanno i capricci. Significa che devi smetterla di fare il debole. È una di quelle nozioni che tu non impari attivamente, ma passivamente. Così fin dall'infanzia capisci che ci sono caratteristiche che sono più accettate e altre meno, come quelle attribuibili al genere femminile".

Federica Fabrizio, anche nota come Federippi su Instagram, è un’attivista femminista intersezionale e autrice del libro Femminucce (Fabbri) ed è tutt’ora in tour per presentarlo in Italia. Durante la nostra intervista abbiamo approfondito non solo alcuni dei contenuti del libro, ma anche il suo punto di vista sull’attuale situazione della donna e dei giovani nella nostra società.

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Da dove nasce l’idea di intitolare il libro Femminucce? E perché hai deciso di scriverlo?

L’intento è quello di riappropriarsi di una parola che è stata a lungo considerata un insulto. Questa è una pratica importante della lotta femminista e della lotta per i diritti in generale

Non ho la pretesa che da domani femminuccia diventi un complimento, mi basta che diventi una parola neutra. Mi piacerebbe che tra qualche anno un bambino che si sente chiamare femminuccia non lo associ alla debolezza. Non solo vorrebbe dire ridare a questo termine un significato, ma anche depotenziarne l’effetto negativo. È accaduto, per esempio, con il termine queer, che nasce come insulto e ora non lo è più. È un processo lungo, non mi aspetto che succeda con un solo libro, però era importante dare questo spunto.

Avere consapevolezza del proprio privilegio ci permette di avere una visione differente della vita. Come possiamo utilizzarlo per creare valore?

Quando una persona si rende conto di avere un privilegio, scattano due meccanismi diversi: uno volto a usare il proprio privilegio a tutti i costi, correndo il rischio di appropriarsi di lotte che non sono proprie. L’altro mette da parte il privilegio e aspetta che siano le persone direttamente interessate (che non hanno lo stesso privilegio) a fare qualcosa. In questo caso si ascolta, si impara e si amplifica la loro voce passivamente. Esiste, però, una terza via, a mio avviso la più utile, che consiste nell’utilizzare il proprio privilegio per creare una via di mezzo tra le due opzioni citate in precedenza.

Bisogna allearsi alle lotte, anche a quelle che non ci riguardano in prima persona. L'obiettivo è quello di poterne parlare e poter partecipare attivamente per contrastare le discriminazioni e le ingiustizie. Farlo senza appropriarsi di quelle lotte e senza protagonismi è la via giusta

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Con Femminucce, mi prendo questo rischio, a partire dal mio privilegio. Sarebbe stato più semplice escludere a priori le donne che non rispettano le mie caratteristiche perché avrei potuto seguire il ragionamento secondo il quale parlo solo di ciò che mi compete strettamente.

L’alleanza è un concetto molto importante, soprattutto se parliamo di femminismo intersezionale, che è quello in cui mi riconosco. Ho deciso di parlarne e di farlo con rispetto, delicatezza e cura, mettendo il mio privilegio a servizio di questa lotta, mentendomi nell’ottica in cui i privilegi smetteranno di esistere se siamo brave nella lotta.

Cosa intendi per carico mentale delle donne e perché rappresenta un problema? Tu come lo vivi?

In generale, il carico mentale che portiamo con noi è il risultato delle pressioni sociali. Avete mai visto un talk in televisione in cui ci sono, per esempio, quattro uomini che parlano di temi sociali e una donna? Agli uomini vengono fatte domande di politica e relative alle aree di loro competenza, in accordo con il loro curriculum. Alle donne che si dichiarano femministe, invece, vengono fatte domande che vanno ben oltre la loro area di competenza. Per questo siamo portatrici di un carico di aspettative enorme. Il nostro spazio di parola e intervento, però, è pari a quello dei nostri colleghi maschi.

Un altro aspetto del carico mentale consiste nel tempo che in media dedichiamo alla routine mattutina in quanto donne, a partire dal truccarsi. Fa parte di quei compiti che ci vengono assegnati silenziosamente e che noi altrettanto silenziosamente rispettiamo, finché qualcuno non ci dice che c’è un’alternativa a tutto questo. Ovvero, possiamo non farlo se non ci va, però c’è bisogno che questa alternativa sia chiara e palese.

Quando mettiamo sul tavolo questi temi, ci viene risposto che dobbiamo educare i maschi, ma non è una nostra responsabilità. Ne abbiamo abbastanza del carico derivante dal lavoro di cura e dalle aspettative della società, ci si può educare da soli

Sulla copertina del libro si legge: “Siamo la nuova generazione pronta a darci da fare affinché la battaglia continui”. Come è possibile riuscire a farsi ascoltare e supportare? Quali sono le difficoltà che riscontri nel portare avanti un dialogo tra generazioni diverse?

Condivido spazi politici e associazioni con persone più giovani di me. Ho visto le persone più grandi di me insegnarmi delle cose e le persone più piccole di me non chiedermi niente perché sapevano già tutto. Le nuove generazioni hanno trovato un modo, anche attraverso i social, di condividere le informazioni e di radicalizzarsi su alcuni temi, che traducono in nuovi linguaggi. Io non sono riuscita a radicalizzarmi finché non ho conosciuto certi spazi. Non voglio fare il discorso per cui le nuove generazioni cambieranno il mondo, perché è un mondo distrutto dalle vecchie generazioni e non bastano i giovani per migliorare la situazione, ma sono speranzosa.

Serve una presa di responsabilità collettiva da parte di tutta la società

A partire dal modo in cui cresciamo, spesso alla perenne ricerca di approvazione, poi finiamo per dover “decostruire” certe abitudini, se vogliamo stare bene.

Per me è stato difficile applicare il verbo decostruire nella mia vita. Mi sono fatta il taglio di capelli che volevo solo due anni fa perché non volevo deludere le aspettative di mia madre. Poi ho capito che non è mia responsabilità assecondare le aspettative che altre persone si sono fatte su di me senza il mio consenso.

Decostruire è un verbo bellissimo: vuol dire disimparare alcune cose che non solo hai imparato, ma che hai sempre dato per scontate

Quando io sono nata ho dato per scontati i ruoli di genere, senza che nessuno mi avesse mai insegnato cosa significavano. Però, se cresci in una famiglia in cui tutti gli uomini vanno a lavorare e le donne restano a casa, allora pensi che questa sia la normalità. Questa è la conseguenza di processi sociali che si sono consolidati nel tempo. Quando li metti in discussione tutti ti rendi conto che devi fare un lavoro grandissimo, non solo su te stessa, ma coinvolge anche le persone che ti circondano. Capisci che c’è un’alternativa a quello che ti hanno insegnato, e questa alternativa è quasi sicuramente migliore. Il femminismo invita a fare proprio questo.

È un processo che porta via molte energie e dobbiamo ricordarci che non è nostra responsabilità educare il mondo al femminismo. Se non ci riusciamo non è un fallimento

Molte persone intorno a me se ne sono andate mentre io diventavo padrona di questi temi. Bisogna fare un po’ di economia delle energie e capire con chi vale la pena parlare e con chi invece non cambierà mai nulla. Per fortuna le persone sensibili sono molte, più di quelle che pensiamo. Spesso la gente non è a conoscenza che c’è un’alternativa. Una volta che gliela forniamo comincia a educarsi da sola. Per questo produciamo contenuti, scriviamo, parliamo… per lasciare qualcosa che parli al nostro posto.

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