Giulia Lamarca: tutto quello che ho imparato dalla disabilità
Sul suo profilo Instagram pubblica piccoli momenti tragi-comici - come li definisce lei - insieme ad Andrea, il suo compagno, e ora anche con Sophie, la sua bambina nata a fine settembre. Psicologa e travel blogger, Giulia Lamarca è un'attivista che da anni si batte per i diritti dei disabili - come il diritto a volare, denunciando la mancanza di bagni accessibili sugli aerei - portando sui social la sua battaglia gentile, sempre col sorriso e con parole positive. Perché l'importante, per Giulia, è raccontare in tutta trasparenza la sua vita in sedia a rotelle. Una vita che non è solo fatta di barriere architettoniche, pregiudizi e difficoltà di ogni genere, ma anche di leggerezza, spensieratezza e libertà. Libertà soprattutto di viaggiare, la vera passione di Giulia e Andrea. Insieme hanno fondato, anni fa, il blog My travels: the hard truth, dove hanno raccontato i loro viaggi in giro per il mondo, ponendo l'accento sull'accessibilità dei luoghi. Un manifesto di amore per la vita, dimostrando che spesso (anzi, molto spesso), il primo limite viene dalla nostra testa.
I veri limiti? Quelli della mente
Proprio sul tema dei limiti, nel 2020 Giulia è intervenuta al TEDxTorino con il discorso dal titolo "Come superare i propri limiti e farne una risorsa”, e da poco è uscito il suo primo libro, Prometto che ti darò il mondo (De Agostini). Una biografia dove la carrozzina è solo una metafora delle barriere che ci poniamo nella vita. Una lettura di ispirazione per tutti, disabili e non.
Abbiamo fatto una chiacchierata con Giulia per parlare di limiti, di accettazione, di social e di inclusività.
Il tuo profilo Instagram conta quasi 150k follower. Quando hai capito che i social potevano diventare uno strumento per diffondere il tuo messaggio?
Me l’hanno fatto capire gli altri: sotto i miei post le persone iniziavano a commentare che avevano incominciato a fare più caso ai problemi dei disabili, mi ringraziavano per aver fatto loro vedere come stanno realmente le cose. Per esempio c’erano ristoratori che mi scrivevano “devo rifare il bagno del mio locale, ora ho capito perché è importante farlo in modo corretto”. In realtà la mia presenza sui social è nata con leggerezza, per ridere: volevo dimostrare che anche nella mia situazione la vita scorre in modo normale, come tutti. Quando ho capito che l’attività sui social faceva bene sia a me che agli altri, ho pensato che ci dovevo credere ancora di più iniziando e raccontare com’era realmente la mia vita, quali erano le difficoltà che incontravo tutti i giorni ma anche i momenti belli, di spensieratezza. Spesso si pensa che noi disabili siamo sempre a lottare contro le barriere architettoniche, ma invece io rido e scherzo come tutti, la mia vita è normalissima.
La mia presenza sui social è nata con leggerezza, per ridere: volevo dimostrare che anche nella mia situazione la vita scorre in modo normale, come tutti
La tua vita è cambiata a 19 anni, dopo l’incidente in motorino. Quando è scattata la decisione di non fare di quell’incidente un limite?
Credo sia stato durante il primo lungo viaggio in Australia. Ero seduta sull’aereo come tutti, la carrozzina era in stiva. Le persone mi guardavano in modo normale, come se non fossi paralizzata. Lì mi è scattata la scintilla: “il problema non sono io”, mi sono detta. “Io sono sempre la stessa Giulia di prima”. Capii che dovevo solo andare a prendermi quello che volevo, senza aspettare, senza farmi bloccare dal giudizio degli altri.
E da quel momento hai anche deciso di diventare travel blogger…
Esatto, e abbiamo iniziato a viaggiare tantissimo, solo il Covid-19 ci ha fermati! All’inizio ci appoggiavamo alle agenzie, poi ci siamo sempre organizzati da soli. Prima della pandemia c’era l’idea di proporre dei viaggi organizzati, di viaggiare con le persone. Ora vediamo.
Ora siete anche in tre.
Infatti, ora con Sophie sarà diverso. Essere madre è un’esperienza intensa e totalizzante. Ma non sono spaventata di viaggiare con lei, anzi. Anche se adesso noto che quando viaggio ho un ostacolo in più: molto spesso le stanze degli hotel per disabili non hanno i lettini per i bambini.
Quanto spesso ti capita di non poter accedere a dei luoghi a causa delle barriere architettoniche? Recentemente, il caso della ministra israeliana Karine Elharrar al Cop26 di Roma ha fatto discutere.
Fammi pensare, direi che mi capita forse nell’80% dei casi? (ride) In Italia su questo siamo molto, molto indietro. Spesso i lavori sono stati fatti male, oppure è stato creato l’accesso ma non il bagno. Il caso della ministra israeliana è emblematico. Un paese molto all’avanguardia è invece il Giappone: lì ci siamo trovati benissimo, gli spazi sono ampi ed è tutto progettato molto bene, sarebbe da prendere come esempio.
È uscito da poco il tuo primo libro. Com’è nata l’idea di scriverlo?
È nato perché… me l’hanno chiesto! In questi anni ho ricevuto moltissime richieste, così ho iniziato a pensarci davvero. L’ho fatto in primis per me: è stato teraupeutico raccontare la mia storia, i miei pensieri, la mia quotidianità. Mentre lo scrivevo però ho capito che poteva essere per tutti, poteva contenere un messaggio universale. Inoltre, durante la sua stesura ho scoperto di essere incinta: anche questo ha cambiato ulteriormente le cose. È stato bellissimo scriverlo. Molti pensano che parli di disabilità: in realtà no, parla della mia storia e la carrozzina è un simbolo per parlare dei limiti in generale, di quello che ho imparato dall’esperienza della disabilità.
Molti pensano che il mio libro parli di disabilità: in realtà no, parla della mia storia e la carrozzina è un simbolo per parlare dei limiti in generale
Cos’hai imparato, prima di tutto?
Ho imparato a guardare le cose e le persone da un’altra prospettiva. A riconoscere che spesso dietro al sorriso di molti – sia disabili che non - c’è il dolore, la lotta, la volontà di mettersi in gioco. Ma ho imparato anche a risolvere problemi in modo velocissimo, sono diventata una problem solver eccezionale! Infine c’è il tema dell’accettazione del mio corpo: anche su questo sto imparando continuamente, giorno dopo giorno.
Dalla disabilità ho imparato a riconoscere che spesso dietro al sorriso di molti – sia disabili che non - c’è il dolore, la lotta, la volontà di mettersi in gioco
Come psicologa, pensi che il movimento di body positivity stia effettivamente cambiando come noi donne ci guardiamo allo specchio?
Difficile rispondere. Da un lato ti direi di sì, dall’altro no. Guardando i dati di questi due anni di pandemia, si è verificato un boom di disturbi alimentari. Inoltre c’è tutta la questione dei filtri e dei ritocchi sui social, che dimostra una pressione estetica molto forte soprattutto tra le ragazzine. Se il movimento body positive ha sdoganato la bellezza “curvy”, sono rimasti dei canoni estetici molto forti: se ci facciamo caso, spesso sui social si trovano immagini patinate, che seguono regole molto precise. Io sono migliorata molto nell’accettare il mio corpo, ma grazie a 10 anni di lavoro interiore.
Cosa diresti alla te stessa di 10 anni fa?
Di fidarsi di più delle sue intuizioni. Generalmente, in tutti gli ambiti della vita, procedo con i piedi di piombo. Anche nel caso dei social, io e Andrea prima di crederci al 100% abbiamo aspettato di avere le spalle coperte, anzi copertissime. Invece avremmo potuto avere meno paure e buttarci subito, senza pensarci troppo. Questo direi a me stessa, e anche agli altri.