Irene Facheris, attivista e formatrice: “fare attivismo è un modo di guardare il mondo”
Il termine attivismo esiste da circa cento anni e deriva dal verbo “essere attivo” in difesa e a supporto dei diritti di una particolare categoria. C’è l’attivismo praticato dalle ONG, quello ambientale o sociale, quello online e quello in piazza (uno non esclude l’altro). Sono tutti validi e in comune hanno la lotta per creare un cambiamento positivo.
Nell’attivismo non esiste l’io, ma esiste un Noi, come spiega Irene Facheris nel suo libro.
Da dove sei partita per scrivere questo libro? Quanto è stato importante il confronto con altre persone impegnate nell’attivismo?
Facendo attivismo online da una decina di anni e offline da molto di più, ho sentito l’esigenza di provare a vedere cosa ci fosse dietro, quali fossero le luci e le ombre di questo mondo. Ho capito subito che non avrei potuto farlo partendo solo dal mio punto di vista. Per avere un punto di vista collettivo sono partita da un questionario pensato per tre target diversi: Chi fa attivismo; Chi non fa attivismo, ma vorrebbe iniziare; Chi sa cos’è l’attivismo a grandi linee, ma non ha interesse nel farlo.
Una volta lette le risposte del questionario, ho compreso che avevo bisogno di sentire parlare le persone. Ho così creato dei gruppi di confronto con chi faceva parte del target “mi piacerebbe fare attivismo, ma ancora non lo faccio” per fare chiarezza su quali fossero le ragioni di questo impedimento. È stato interessante, ma anche doloroso rendersi conto che alcuni nostri comportamenti fanno da gatekeeping e non permettono agli altri di entrare in questo mondo.
Quando si parla di gatekeeping nell’attivismo? Ci fai qualche esempio?
Ogni volta che una persona da dentro dice: “se fai così non sei un vero attivista” allontana le altre perché hanno paura di sbagliare.
Fare attivismo non significa non sbagliare, ma sbagliare collettivamente
Per esempio, di fronte a una persona molto preparata può capitare di sentirsi in soggezione o non all’altezza, ma si può fare attivismo e parallelamente studiare. Non è necessario aspettare di sapere tutto prima di iniziare a dare una mano.
Qual è la figura dell’attivista e cosa intendi per coerenza?
Il problema si pone quando fai coincidere una persona con il suo messaggio. Ad esempio, se io ti dico una cosa in cui credo, predico bene, ma ogni tanto mi capita di sbagliare, e il rischio potrebbe essere quello di perdere credibilità. Il bello di essere in tanti a fare attivismo, invece, è che se c’è una persona che commette un errore, il messaggio non perde di valore, perché è portato avanti da tante persone. A me è capitato di dire cose in cui credevo, ma poi di farne altre in contrasto con quello che avevo detto e in questo caso ho chiesto scusa.
Essere influencer e fare attivismo è possibile?
Più diventa radicale il proprio modo di fare attivismo e meno si riesce a tenere il piede in due scarpe. Io ho accettato delle collaborazioni anni fa, a cui ora direi di no, perché il mio sguardo è cambiato. Se tieni alla coerenza è improbabile che tu possa continuare a fare l’influencer. Avere questa doppia identità è possibile per un certo periodo di tempo, non all’infinito. Con i contenuti che condivido posso fare sponsorizzate solo con brand realmente sostenibili, che di solito sono più piccoli e con un budget minore da allocare. Se devo sponsorizzare un brand indipendente, che fa fatica a stare in piedi, non mi faccio pagare. Non ho intenzione di puntare il dito contro le persone che fanno entrambe le cose, anche perché magari fanno attivismo su temi diversi rispetto a quelli che trattano per le sponsorizzazioni.
Nessuno mi paga per fare attivismo, nonostante io lo faccia tutti i giorni. Il discorso che ho fatto fino ad ora dipende anche da quanto privilegio economico hai.
Dico no alle sponsorizzate perché ho il privilegio economico di dire di no, dato che faccio un altro lavoro. Ma ci sono stati momenti in cui non me lo potevo permettere
In alcuni casi ho comunque detto di no perché era troppo lontano dai miei principi. Puntare il dito senza rendersi conto dei vari addendi, però, è miope.
Quali sono le conseguenze del fare attivismo sulla salute mentale?
Io non faccio attivismo, sono un’attivista. Magari non sto dicendo qualcosa, ma lo sto pensando. Attivismo è un modo di guardare il mondo. È difficile perché mi occupa l’intera giornata e farlo online è pesante a causa dell’odio online o delle shit storm.
Che io abbia dovuto rinunciare per sempre a un pezzo della mia serenità e salute mentale questo è un fatto
È una delle ragioni per cui ho voluto inserire questo tema nel libro perché tante persone negli anni mi hanno scritto prima per ringraziarmi e poi per dirmi che non li avevo avvisati delle conseguenze. Mi sono sentita in colpa in questi anni per non aver parlato anche di questo aspetto.
“Fai attenzione. Preservati. È normale che tu non sia sempre sul pezzo. Va bene così”. Forse non l’ho detto abbastanza
In cosa consiste l’attivismo performativo?
Ci sono persone che utilizzano l’attivismo come mezzo per arrivare ad altro, cioè l’engagement e il consenso. Poi ce ne sono altre, che non sono in cattiva fede, ma che sono offuscate dal bisogno di sentirsi brave, perdendo di vista quello che è realmente importante.
L’obiettivo dell’attivismo non è ricevere un applauso, ma portare un messaggio. Per farlo in modo preciso e coerente c’è bisogno di tempo. Se lo fai sui social devi combattere contro la velocità: “sii la prima a riportare la notizia”. Ci vuole del tempo per produrre un pensiero che sia sensato, che non sia la stessa cosa detta e ridetta e che sia corretta. Se corri per essere la prima a dare la notizia è probabile che sia sbagliata. A volte però questo meccanismo ci fagocita talmente tanto che non ce ne rendiamo conto.
Il libro è stato riletto da una sensitivity reader, Biancamaria Furci. Qual è stato il suo contributo e perché questa decisione?
Ho scelto di coinvolgere questa figura professionale e di condividerlo pubblicamente per mandare un messaggio.
Il ruolo del sensitivity reader è molto conosciuto sia in America che nel Regno Unito, qui in Italia meno. Si tratta di una persona che edita il libro non dal punto di vista della grammatica, ma dal punto di vista del rispetto verso chi leggerà e di empatia nei suoi confronti
Voglio sfruttare la possibilità di far conoscere questo mestiere e la sua importanza.
In quanto attivista femminista, quali sono i cambiamenti e le evoluzioni che hai riscontrato negli ultimi anni?
Quando io ho iniziato avevamo passato la terza ondata degli anni Novanta e eravamo in un periodo di vuoto rispetto a questi temi. Non se parlava online o sui social, nonostante nel forum dedicato ci siano sempre state persone interessate. Quando io ho iniziato nel 2016 la rubrica “Parità in pillole” su Youtube non c’era una cosa del genere in Italia. Adesso se tu dici “femminismo” e la maggior parte delle persone sa di cosa stai parlando. C’è un aumento di consapevolezza e sensibilità su questi temi. Io vado nelle scuole da dieci anni e se le prime volte i ragazzi e le ragazze erano sprovvisti di strumenti, adesso sanno di cosa sto parlando e mi propongono quale argomento trattare. Questo mi fa pensare che stiamo andando nella direzione giusta, anche se non vuol dire che sia semplice. La maggior parte delle volte sono gli studenti e le studentesse a chiamarmi, non la scuola.
Come sta andando il tour? Quali saranno le prossime tappe?
Ho iniziato a settembre e ho appena finito il tour con la tappa di Cagliari. Riprenderò a gennaio. Ho voluto prendermi un mese di pausa perché ne ho sentito il bisogno per la mia salute mentale. Sto incontrando tante persone che vorrebbero fare attivismo, ma che si sentono frenate, come dicevamo prima. Parlando con loro ho capito che il mio target di riferimento saranno gli indecisi.
Spesso emerge il tema della sindrome dell’impostore perché non ci si sente abbastanza. Ricordo molti abbracci e ho sentito il senso di collettività.