La “vita in fuorigioco” di Katia Serra: intervista alla pioniera del calcio femminile in Italia

Dalle partitelle con gli amici all'esperienza nella Nazionale, dalla lotta per guadagnare lo status di professioniste al commento della finale di Euro2020: una chiacchierata con Katia Serra, la donna che ha fatto uscire il calcio femminile dal cono d'ombra di quello maschile

In 24 anni di carriera, Katia Serra ha giocato nel campionato italiano di calcio, dove ha vinto uno scudetto, tre Coppe Italia, una Supercoppa italiana e una Italy Women’s Cup. Deposti gli scarpini, è diventata prima sindacalista, così da permettere al calcio femminile di uscire dal cono d’ombra di quello maschile, e poi la prima cronista donna a livello internazionale a commentare per la Rai la finale di uno dei tornei più prestigiosi dello sport a più alta componente maschilista in assoluto, la finale di Euro2020.

Katia Serra, classe 1973, è stata una pioniera del calcio femminile in Italia, e ha dovuto combattere ogni giorno per farsi strada in un mondo in cui di spazio, per le donne, ce n’è sempre stato molto poco

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Eppure non si è data per vinta, diventando il simbolo del calcio femminile anche fuori dai confini nazionali e una delle voci più competenti e autorevoli del panorama televisivo calcistico italiano.

È lei stessa a raccontarlo in Una vita in fuorigioco, libro edito da Fabbri Editori disponibile dal 31 gennaio in cui ripercorre le tappe della sua carriera e della sua vita: dalle prime partitelle con gli amici nel cortile di casa fino all’esperienza nel campionato spagnolo, dalle scelte obbligate che le hanno cambiato la vita alle lotte sindacali per i diritti delle calciatrici.

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«Ricordo i primi dieci anni della mia infanzia come un sogno luminoso, una favola. Li ricordo annebbiati, ma avvolti da un senso di serenità che si sarebbe offuscato man mano che crescevo - spiega nel libro- Con l’adolescenza, infatti, avrei capito che il mio sogno, quello di diventare una grande calciatrice, era un sogno proibito. Qualcosa per cui avrei dovuto lottare con le unghie e con i denti, fino all’ultimo fiato».

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Di questo sogno, e degli altri che è riuscita a realizzare in oltre 20 anni carriera, ne abbiamo parlato direttamente con lei: ecco cosa ci ha risposto.

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Katia, come hai scelto il titolo del libro?

È stata una scelta spontanea, naturale: è la sensazione che ho sempre vissuto, e ogni tanto capita ancora di vivere. Quel senso di spingermi “oltre" rispetto a ciò che mi circondava, con una visione ed idee proiettate nel futuro.

Sei stata una pioniera in un mondo riservato agli uomini, un mondo in cui le donne venivano, se possibile, prese ancora meno sul serio. Che ricordi hai di quel periodo?

Di tanta sofferenza psicologica, di una forza interiore pronta ad accettare qualsiasi sfida professionale per far cambiare idea, della determinazione di provarci senza badare troppo a ciò che mi succedeva attorno

Ci sono episodi che ti sono rimasti particolarmente impressi, in positivo e in negativo, della tua carriera di calciatrice?

Ho avuto la fortuna di vivere una carriera molto, molto intensa. Ho ricordi dettagliati, soprattutto quelli legati ai numerosi infortuni e alle infinite difficoltà incontrate pur di giocare. Tra quelli positivi sicuramente le emozioni dei trofei conquistati e l’esordio in nazionale

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A proposito di professionismo, dal 2022 in Italia le calciatrici di serie A hanno acquisito lo status di professioniste. Un passaggio atteso da tempo: un punto d’arrivo o un inizio?

Se fosse vissuto come punto d’arrivo sarebbe una sconfitta. Per le donne, in Italia, il calcio da sport più discriminato è diventato quello più tutelato. È l’unico sport al femminile ad avere questo status, pertanto deve sentire il peso della responsabilità e deve essere maturo di ricercare la sua crescita slegandosi dalle dinamiche dello show business del calcio maschile

Sei stata anche la prima donna in assoluto a commentare una finale della nazionale, un incarico arrivato all’improvviso. Che effetto ti ha fatto?

Un contrasto di emozioni fortissime: da un lato una gioia incontenibile, dall’altro l’imbarazzo di esserci per disavventure di colleghi. Superata questa fase iniziale, poi è subentrato l’orgoglio di aver ricevuto questo incarico.

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