Lucy Salani, le mille vite della donna transgender sopravvissuta ai campi di concentramento

Lucy Salani, all'anagrafe Luciano, è morta a 98 anni a Bologna. È considerata l'unica transessuale italiana a essere sopravvissuta alla persecuzione nazista, ed è diventata un simbolo di resistenza, coraggio e rinascita

Una vita fatta di tante, tutte vissute intensamente, consapevole che “ce n’è soltanto un soffio”, che è poi il titolo del documentario che Matteo Botrugno e Daniele Coluccini le hanno dedicato: a 98 anni è morta all’ospedale di Bellaria Lucy Salani, l’unica persona transengender italiana a essere sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Una donna diventata simbolo di coraggio e resistenza, di sopravvivenza e rinascita, la cui storia per lungo tempo è passata sotto traccia, pur ricalcando quella di migliaia di persone transgender perseguitate e uccise nell’Olocausto.

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La fuga dall'esercito e la vita ai margini

Nata a Fossano, in Piemonte, nel 1924, Fasani all’anagrafe era Luciano, e Luciano è rimasta - e in questi termini ha parlato di sé - sino ai 58 anni, pur sentendosi da sempre donna. Ancora bambino, Lucy si trasferisce a Bologna, ed è lì che affronta lo scoppio della guerra: ha 19 anni, e viene chiamata in servizio dall’esercito italiano. A nulla serve dichiarare la sua omosessualità: viene arruolata, ma dopo poche settimane, con l’armistizio italiano del 1943, riesce a fuggire.

Viene catturata dalle truppe fasciste e costretta a unirsi ai ranghi, ma nuovamente diserta, nuovamente scappa, e torna a Bologna. Qui ritrova una famiglia cui è profondamente legata, ma che non ha mai accettato la sua identità e il suo desiderio di autodeterminarsi, e ritrova anche gli amici e una città in cui prova a essere se stessa. Inizia a prostituirsi, e tra i clienti annovera anche ufficiali tedeschi: è durante una retata in un albergo che viene scoperta e arrestata, in quanto disertore. Trasferita in carcere e condannata a morte, Lucy fa l’unica cosa cui riesce a pensare: chiede la grazia al generale nazista Albert Kesselring, che gliela concede e la condanna ai lavori forzati in un campo di concentramento tedesco.

La deportazione a Dachau e la liberazione

Ancora una volta Lucy riesce a fuggire, ancora una volta viene scoperta e catturata. Questa volta viene deportata a Dachau, dove entra non con il triangolo rosa, quello assegnato alle persone dichiaratamente omosessuali, ma con quello rosso, quello riservato ai prigionieri politici e ai disertori. A 19 anni le si spalancano le porte dell’inferno: «Mi avevano dato la mansione di prendere tutti i cadaveri delle persone che morivano di notte - racconterà in uno dei documentari che le sono stati dedicati - e mettergli una targhetta con il numero, perché non c’era un nome, c’era un numero. Poi li caricavamo sopra un carro, e li portavano al crematorio».

Per 6 mesi Lucy resterà a Dachau, sino alla liberazione da parte delle truppe americane nell'aprile del 1945: «È impossibile dimenticare e perdonare - racconterà intervistata da Gianni Amelio per il documentario del 2014 “Felice chi è diverso” - Ancora alcune notti mi sogno le cose più orrende che ho visto e mi sembra di essere ancora lì dentro».

La seconda vita tra Torino, Parigi e Bologna: nasce "Lucy"

Dopo la liberazione, per Lucy inizia una seconda vita: tornata a Bologna, capisce però che la famiglia non la accetta non soltanto in quanto omosessuale, ma anche in quanto disertore. E allora riparte, riprende la fuga, questa volta per trovare se stessa. Si riaffaccia al mondo della prostituzione, raggiunge Parigi dove conosce il mondo degli spettacoli “en travesti” e si ritrova ballerina e attrice, torna in Italia e si trasferisce a Torino.

Inizia ad assumere gli ormoni, decide di completare una transizione iniziata sin da quando era nata, e intanto impara un mestiere: la tappezzeria. La vita scorre, e nel 1981 Lucy va a Londra per sottoporsi a un intervento di riattribuzione del sesso. Diventa, a tutti gli effetti, Lucy, anche se di cambiare il nome si è sempre rifiutata: all’anagrafe è rimasta Luciano. Torna quindi a Bologna, dove si riunisce alla famiglia e dove resterà sino alla fine dei suoi giorni.

I progetti che ne tengono viva la memoria

Della sua storia, e delle molte vite che ha vissuto, come spesso accade se ne parla, purtroppo, soltanto dopo la morte. E questo nonostante che abbia consacrato la vita non soltanto a tenere viva la memoria degli orrori dei campi di concentramento, ma sia stata anche un’attivista antifascista e per i diritti delle persone LGBTQIA+.

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A darle voce è stata, per la prima volta in modo completo, la scrittrice e regista Gabriella Romano nel 2009 con il libro “Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale”. Sempre Romano, nel 2011, le dedicherà un documentario, la stessa cosa che faranno 10 anni dopo Botrugno e Coluccini. Un progetto che la segue, a 96 anni, nella sua Bologna e anche a Dachau, dove Lucy ha fatto “pellegrinaggi” annuali per non dimenticare e non far dimenticare.

«Il mio nome è Salani Luciano, ma nella vita ho preso parecchi nomi - dirà ai registi, accogliendoli nella sua casa - Quante volte me l’hanno chiesto di cambiare nome? E ho sempre detto di no. Me l’hanno dato i miei genitori, ed è sacro. Perché una donna non può chiamarsi Luciano? Perché no?».

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