Sara D’Agati: “cambiamo la narrazione di Roma con atti inaspettati di arte e bellezza”

Ha vissuto in Olanda, Argentina, Stati Uniti e Inghilterra, eppure Sara D’Agati ha deciso di tornare nella sua città, Roma, per cambiare dal basso la narrazione che da decenni la immobilizza nei contorni di una capitale statica e decadente, ancorata al passato, corrotta. Lo fa insieme a Maddalena Salerno con Romadiffusa, il progetto che coinvolge vari quartieri per mettere in luce spazi, realtà creative, artisti e musicisti che compongono la vera linfa di Roma. Tutto in un’ottica olistica, creando connessioni e cortocircuiti che possono dare vita a reti virtuose capaci di portare nuove prospettive sulla città

PhD a Cambridge in Relazioni Internazionali, con una specializzazione su soft power e cultural diplomacy, Sara D’Agati da sempre focalizza il suo interesse e il suo percorso professionale sulla cultura come strumento di rigenerazione sociale. Un mezzo per far emergere e stimolare voci diverse, spesso sommerse, espressione di sguardi sulla vita non comuni, che accendono scintille e che provocano domande, curiosità, ampliano gli orizzonti. È il bello delle grandi città: immergersi nel brulichio della biodiversità umana, culturale e artistica per scoprire qualcosa in più di sé stessi. La biodiversità, però, in una città come Roma, va anche ricordata e ricostruita.

«Mi ha sempre interessato studiare come la cultura possa diventare uno strumento di influenza, soprattutto nel contesto italiano. All’estero, l’Italia viene spesso raccontata attraverso stereotipi o in termini riduttivi, a volte addirittura viene ridicolizzata. Anche quando ho collaborato in passato con la Commissione Esteri e ho tenuto dei corsi all’Università di Roma Tre e al Master del Sole24Ore, ho indagato le interconnessioni tra il territorio e la cultura per trovare una narrazione diversa rispetto a quella politica, tossica, patriarcale. Ciò che mi chiedo è: in che modo la cultura può cambiare la percezione della città? Un interrogativo che ho ribaltato su Roma: come si può cambiare la narrazione della capitale? Semplice, cambiando Roma», spiega Sara.

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Con la fondazione, insieme a Maddalena Salerno, di Bla Studio, agenzia creativa con focus sul branding territoriale, Sara D’Agati parte proprio da qui per riportare le persone a riappropriarsi del potere generativo di creare, fare, organizzare, esprimere la creatività senza sentire il peso di una città che sull’arte e la bellezza ha fondato la sua grandiosità. Roma città eterna, si dice. E come sarebbe, invece, se diventasse una città contemporanea?

«Con questa provocazione è nato il claim “Roma città eterna odierna” di Romadiffusa, di cui lo scorso settembre è andata in scena la seconda edizione del festival. Anche dagli stessi romani, infatti, Roma viene raccontata come una città pesante, difficile, dove non accade nulla. E se invece non fosse così?

Di Milano si dice sia una città europea, dove tutto funziona. Roma, invece, è considerata una città italianissima, dove tutto non funziona. Perché questa equazione? L’Italia non può risollevarsi senza Roma

Noi vogliamo cambiare Roma agendo sul territorio, partendo dal basso».

Per farlo, il modus operandi di Romadiffusa è metodico e certosino: «In primis facciamo una mappatura, area per area, di tutte le realtà virtuose che esistono: botteghe, ristoranti, gallerie, spazi, ce ne sono migliaia. Manca però una messa a sistema, c’è un’estrema atomizzazione. Noi creiamo una mappa di queste realtà e poi le mettiamo a rete, le facciamo conoscere tra loro. Dopodiché mettiamo in relazione le realtà affini e le rendiamo visibili attraverso il festival, che è solo l’emanazione più visibile al pubblico di un processo lungo e articolato. Durante i quattro giorni della rassegna creiamo poi un tetris tra contenuti contemporanei e tradizionali».

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Andato in scena lo scorso settembre nella sua seconda edizione, il festival è un format che attiva, volta per volta, un diverso quartiere, promuovendo le realtà esistenti, portando energie creative da fuori e coinvolgendo un pubblico ampio e trasversale. Un progetto enorme e ambizioso.

Alla base di tutto, l’idea che si sia creato, negli anni, un grande fraintendimento: che la cultura, l’arte, la poesia possano essere colte soltanto da una nicchia di persone. Che la massa voglia altro, che parli un’altra lingua. «Vogliamo evidenziare la retorica che da molti anni viene utilizzata per giustificare la televisione spazzatura e l’imbruttimento delle città. Ci siamo sentiti raccontare che questo è quello che vuole la gente.

Al contrario, noi vogliamo dimostrare che se alle persone si offre il bello, il poetico, la qualità, saranno pronte ad accoglierlo

Il nostro esperimento è quello di portare contenuti al pubblico in luoghi e situazioni in cui, normalmente, non ne fruirebbe: un monologo al ristorante, un concerto di pianoforte in strada, una mostra al biscottificio o dal carrozziere, un concerto di musica afro in una panetteria, un evento di stand-up comedy in un bar. Un tipo di bellezza che la gente non conosce e che non sa di volere. Ma soprattutto, che non risponde a logiche capitaliste. Vogliamo spiazzare, creare straniamento. Il festival diventa un playground che scardina l’idea di Roma in cui non succede niente, creando contrasto tra lo storico e il contemporaneo».

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L’obiettivo, tra gli altri, è anche quello di modificare i flussi turistici della città, ancora troppo legata a un turismo mordi e fuggi. «Vorremmo dare il via alla costruzione di un turismo che venga appositamente per la rassegna, per conoscere altri aspetti della città oltre ai monumenti più celebri, che si fermi più a lungo e trovi stimolo per portare nuovi progetti e investire sulla città».

E la reazione dei romani a tutto questo, qual è? «Nell’ultimo mese, ogni ora c’è qualcuno che ci scrive, ci viene a bussare in sede, viene a raccontarci cosa fa, ci chiede di partecipare. Anche dal pubblico stiamo ricevendo un entusiasmo che mai ci saremmo aspettate. Gli eventi sono andati tutti sold out quasi subito, ci scrivono in tantissimi per aiutarci, partecipare, noi stesse stentiamo a crederlo», conclude Sara.

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