Sara Melotti: “viaggiando ho capito che la vera bellezza non ha nulla a che fare con l’aspetto esteriore”

Attraverso il progetto fotografico Quest for Beauty, Sara Melotti esplora il concetto di bellezza in vari Paesi del mondo. Un reportage sulle diverse interpretazioni del bello che smaschera le pressioni sociali sulle donne, lasciando emergere un’unica, grande verità: estetica e bellezza non sono sinonimi

Fotografa, ex ballerina, travel blogger, content creator e scrittrice: Sara Melotti è tante cose insieme, e l'impressione è che nessuna di queste la definisca davvero.

Un passato da danzatrice in Italia e negli Stati Uniti, a cambiarle la vita fu l'incontro con la macchina fotografica. Da qui il percorso per diventare fotografa di moda, professione che ha svolto con successo per diversi anni tra Londra e New York. Poi la crisi di coscienza e la consapevolezza di non voler più contribuire alla costruzione di modelli di bellezza irraggiungibili, di non voler partecipare a quella spirale di dolore che è l'industria della bellezza occidentale. Ne seguì un periodo di profonda introspezione che la portò a mettersi in viaggio e scoprire altre visioni della bellezza e della vita, fino all'idea di Quest for Beauty, una serie di interviste alle donne incontrate nel suo cammino.

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Oggi, Sara racconta la vita, le esperienze e i pensieri degli invisibili, delle persone che abitano in contesti difficili - dall'Iraq all'India, passando per l'Iran - e che hanno alle loro spalle storie di violenza e di guerra. Lo fa attraverso la sua macchina fotografica, un’estensione della sua mente, e attraverso il suo profilo Instagram, dove pubblica diari di viaggio durante i progetti che svolge all’estero con ONG internazionali.

Nel 2021 ha pubblicato per Piemme La felicità è una scelta, romanzo di ispirazione autobiografica in cui racconta la potenza di seguire i messaggi che arrivano da testa, cuore e anima: un manifesto generazionale sul senso della felicità e su quell'impagabile sensazione che scaturisce dal liberarsi dell'effimero e delle cose che non contano.

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Da ballerina a fotografa: perché hai deciso di cambiare professione?

A 21 anni mi trasferii negli Stati Uniti spinta dal sogno di diventare una ballerina professionista. Purtroppo, però, la realtà americana era avanti anni luce rispetto a quella italiana, e io non ero al livello dei danzatori americani. Capii subito che non sarei mai arrivata dove volevo, così accolsi un infortunio come un'occasione per cambiare direzione. Non avevo previsto, però, la crisi di identità che ne conseguì: per tutta la vita avevo danzato e mi identificavo con la professione della ballerina.

Soltanto più avanti avrei capito che è molto rischioso identificarsi con una professione. Ne seguì un periodo buio: avevo attacchi di panico, mi prescrissero lo Xanax e inizia ad abusarne

È in quel periodo che hai incontrato la fotografia?

Esatto. Una persona mi regalò una macchina fotografica, ridandomi un senso e uno scopo nella vita. Iniziai a studiarla, a sperimentare. Scelsi di lanciarmi nella fotografia di moda perché in parte ne condividevo la visione artistica ed eterea della donna. Iniziai a scattare nel 2013, vivevo a Las Vegas e organizzai alcuni photoshooting con altri professionisti. In 6 mesi avevo già un portfolio enorme, che mandai a qualche rivista online riscontrando un discreto interesse. Così mi trasferii a Londra per poi fare il salto a New York. Andava tutto bene, guadagnavo tanto e stavo facendo carriera in fretta, finché non sentii emergere una voce dentro di me che mi diceva di fermarmi.

Realizzai che stavo contribuendo a creare quegli standard di bellezza che hanno fatto e fanno ancora soffrire le donne nella società occidentale

Iniziai a notare quanto spesso le mie amiche si autocriticavano per il sedere grosso, il naso, il loro peso. Ragazze che ai miei occhi erano bellissime. Poi iniziai io stessa a vedermi brutta, a volermi rifare il naso. Un giorno, mentre mi guardavo allo specchio, mi scoprii a pensare che avrei voluto photoshopparmi il viso prima di uscire. Un pensiero malatissimo. Fu la classica goccia. Decisi che avrei abbandonato questo lavoro.

Come sei riuscita a cambiare vita?

È stato un percorso non immediato, per un po’ di tempo ho affiancato la fotografia di moda a progetti miei, iniziando a viaggiare. Ho incominciato a chiedermi cosa sia effettivamente la bellezza e l’ho chiesto alle donne che incontravo durante i miei viaggi. Da qui nacque il progetto Quest for Beauty. Sono partita dal Marocco per passare al Vietnam, Hong Kong, Messico e Cuba, ora siamo a 15 Paesi del mondo.

Cosa ti ha insegnato Quest for Beauty?

Innanzitutto mi ha insegnato la bellezza del contatto e dello scambio umano. Perché un conto è fotografare modelle, un altro è fotografare persone normali in giro per il mondo, con cui magari non riesci a comunicare a causa della barriera linguistica, ma che attraverso gli sguardi, i gesti e i sorrisi ti comunicano un mondo. Facevo a tutte le donne le stesse domande: Cos’è la bellezza per te? Qual è la cosa più bella del mondo? Cosa rende una donna bella e cosa la rende brutta? Ti senti bella? Mi stupii il fatto che nessuna di loro associava la bellezza all’aspetto estetico. In India, alla domanda cos’è la bellezza mi rispondevano “Dio”, altre “mia figlia”, altre ancora “un tramonto”. E alla domanda su cosa renda una donna bella, le risposte che mi davano più spesso erano "empatia", "gentilezza" e "sicurezza in se stesse".

Quest for Beauty mi ha insegnato che la bellezza è legata alla felicità, non certo all’estetica

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Il movimento della body positivity sta contribuendo secondo te a cancellare l'imperativo della perfezione?

Ho dei sentimenti contrastanti su questo: diciamo che quello della body positivity è partito come un vero e proprio movimento con le migliori intenzioni, venendo poi strumentalizzato dalla stessa industria della bellezza che perpetua il problema. Un problema che non è certo svanito. Le donne hanno ancora moltissime insicurezze legate al proprio aspetto fisico. Qualche anno fa ho lavorato a un reportage sulle imposizioni estetiche che hanno vissuto le donne negli ultimi decenni – dall’invenzione della cellulite come inestetismo fino alla campagne pubblicitarie di moda – e tantissime donne mi hanno scritto per ringraziarmi.

Ho capito che soltanto quando inizi a vedere il tuo corpo come un amico inizi anche a comprendere quanto sia violenta la cultura della dieta, della rimozione dell’inestetismo, dell’imperativo alla perfezione

Soltanto in quel momento capisci che il tuo valore sta nella tua interiorità. Ma finché la società ti butta addosso modelli di bellezza irraggiungibili – perché le modelle rappresentano soltanto i corpi del 2% delle donne del pianeta – sarà difficile comprenderlo.

Com'è nato invece il tuo libro, La felicità è una scelta?

Ce l’avevo in testa da tanto, volevo parlare sia del concetto di bellezza sia di come sia possibile superare le proprie paure e trasferirsi dall’altra parte del mondo. Volevo trattare il tema della felicità attraverso la mia esperienza. Sui social mi chiedevano in tanti come avessi fatto a lasciare tutto e viaggiare, rivoluzionando la mia vita. Così ho deciso di raccontare tutto il mio percorso per dimostrare che non esiste una formula magica e che spesso sono necessari tanti errori, tanti sacrifici. Qualche esempio? Il sacrificio di vivere lontano dalla mia famiglia, di mollare tutto senza una sicurezza.

La comfort zone non è un’amica, mai. Sotto sotto sai che c’è dell’altro, e che questo "altro" è meglio. Il sacrificio è andare incontro all’ignoto. Ma più dell’ignoto mi fa paura avere dei rimpianti

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Oggi collabori con ONG e racconti casi di violenze sulle donne.

Mentre viaggiavo mi ha contattato Actionaid chiedendomi se volevo andare con loro in India per un progetto sulla violenza contro le donne. Fino a quel momento non sapevo nulla di quanto possa essere crudele il mondo. Oggi posso dire che quel progetto mi ha cambiato la vita. Ho visitato Bhopal nel Madhya Pradesh, regione nel centro dell’India, una delle città con il tasso più alto di violenza femminile.

Per una settimana abbiamo visitato le case di alcune donne che ci hanno raccontato le loro storie di stupro. Storie di un’atrocità inaudita: dalla ragazza di 12 anni stuprata dallo zio fino alla bambina abusata dal padre, passando per la donna stuprata 8 volte dal datore di lavoro

Ma la storia che mi ha turbata di più è quella di una ragazza della mia età che mentre prendeva un tuk-tuk è stata aggredita da due uomini. Il conducente del mezzo non solo non ha cercato di difenderla, ma appena i due hanno finito di violentarla, ha fatto lo stesso anche lui.

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Sentire queste storie direttamente dalle donne che le hanno vissute ha avuto un impatto devastante su di me.

Nonostante io in passato abbia avuto un rapporto con una persona violenta, non è niente di paragonabile a quello che hanno vissuto queste donne

Da lì ho capito che ci sono tante, tante storie da raccontare che sono molto più importanti delle semplici storie di viaggio che raccontavo prima. Oggi mi interessa il discorso umanitario, voglio raccontare le storie delle persone meno fortunate di me.

Durante queste esperienze ho capito quanto siamo fortunati, quanto sono grata alla vita

Ho iniziato a collaborare sempre più spesso con le ONG e sono stata due volte in Iraq per un progetto sui bambini e ragazzini che vivono nei campi rifugiati in Kurdistan. Mentre sono sul posto creo un diario di viaggio attraverso le stories su Instagram, poi faccio anche dei video reportage più lunghi, dove racconto in maniera più approfondita quello che faccio. Un mix tra vlog e documentario.

Hai girato anche un video sul tema della sicurezza delle donne in viaggio. Secondo la tua esperienza quanto è davvero pericoloso per una donna viaggiare in solitaria?

Ho visto tanto mondo negli ultimi 7 anni, e mai mi sono sentita in pericolo. Viaggio quasi sempre da sola e senza programmare. Ho imparato che il mondo è un luogo molto più sicuro di quanto ci raccontano i media. Sui giornali troviamo solo le notizie brutte, perché sono le notizie brutte a fare notizia. Ma le disgrazie non sono la regola, anzi. Succede molto più spesso che chi viaggia faccia esperienze incredibili. Prima di partire per il Marocco tutti mi dicevano che dovevo stare attenta. Ovviamente può capitare che succeda qualcosa di brutto, ma io ad esempio mi sono sentita sicurissima. Pensiamo sempre che le persone non vedano l’ora di farci del male, di fregarci, ma in realtà la loro preoccupazione maggiore è quella di pensare alla propria vita.

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Cosa vuoi concretizzare nel futuro?

Ora sto lavorando per trasformare Quest for Beauty in una docuserie, affiancando video e foto. Una storia che vorrei raccontare è quella dell'Iran, dove, per esempio, quando passeggi per le strade di Teheran vedi tante ragazze con il cerotto al naso perché se lo rifanno alla occidentale.

Vorrei affrontare il tema dell’occidentalizzazione del modello di bellezza per arrivare a parlare di libertà

Il tema della bellezza è solo un mezzo per allargare il discorso ai temi sociali. Inoltre, vorrei rendere Quest for Beauty anche una mostra: prossimamente il progetto sarà esposto al festival Riaperture di Ferrara (dal 13 al 29 maggio). Poi vorrei continuare il lavoro con le ONG e fare reportage, documentari sulle storie delle persone che hanno vite straordinarie e che meritano di essere raccontate.

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